Rosanna Cozzolino taglia i panini e li farcisce di friarielli e formaggio, Lucia Criscuolo li riempie di peperonata e di sottilette che Giovannina Grazia, appoggiata su un altro tavolo, libera,  in maniera seriale, dalla plastica, lei aiuta la chiesa del SS. Rosario di Ercolano dal 1964, «Quando a Corso Italia c’erano appena due palazzi». Da lì a poco le più giovani, Pina Simeone e Anna Cozzolino, si uniranno al gruppo per velocizzare le operazioni. Padre Gabriele, armato di grembiule e paletta di legno, ha già messo a soffriggere le cipolle, apre una dozzina di lattine di fagioli cannellini e un paio di quelle grandi da 1 kg di pelati, versa il tutto nel pentolone e lascia cuocere con il coperchio appoggiato a metà sul pentolone. Tutto rigorosamente senza maiale, perché tra i poveri e i bisognosi intorno alla stazione Centrale di Napoli ci sono anche molti musulmani e, appena vedono una qualsiasi forma di insaccato, si rifiutano di mangiare. Alle spalle, sugli scaffali, sotto i tavolini, sono ammassati scatoloni di medicinali e di cibo a lunga conservazione, di vestiti dentro delle buste riposti in un armadio o sulle scale che portano al primo piano della casa canonica, tutto da inviare in Ucraina. 

La parrocchia del SS. Rosario è il centro di raccolta per gli aiuti umanitari dell’area vesuviana, punto di riferimento grazie alla reputazione delle azioni di don Gabriele e della sua associazione durante gli ultimi anni. Durante le prime tre settimane dell’emergenza per la guerra in Ucraina,  don Gabriele racconta che la parrocchia ha mandato 12 tir a Leopoli.

La casa parrocchiale in Corso Italia diventa così un deposito stracolmo di ogni bene per i profughi ucraini senza dimenticare i poveri di Napoli e provincia. Padre Gabriele assume un profilo basso, non gli piace apparire davanti alle telecamere, ma è grazie a lui che la comunità riesce a fare corpo e aggregazione nella cittadina vesuviana: «Facciamo il possibile, prendiamo quello che possiamo e poi lo mandiamo alla chiesa ucraina in via dei Tribunali a Napoli. Certo, dividiamo i prodotti che abbiamo, ma sono i volontari di padre Taras Zub che traducono tutto in cirillico e mettono le etichette sui pacchi per aiutare lo smistamento una volta arrivati a destinazione in Ucraina, inoltre se dovessero fare un controllo alla dogana la scritta esterna deve corrispondere a quello che c’è all’interno», afferma. 

«Faccio parte anche della Croce Rossa, quindi vivo la situazione dei profughi ucraini anche da un altro punto di vista», afferma Anna Cozzolino che spezza gli spaghetti che poi andranno aggiunti alla zuppa di fagioli. «Stiamo facendo il possibile, la situazione è drammatica, sono i visi disperati dei bambini quelli che ci colpiscono pienamente. Li stiamo vaccinando insieme ad altri colleghi, poi c’è chi li va a prendere e li porta al punto di ritrovo a Napoli alla Mostra d’Oltremare, alcuni vengono con le famiglie che li ospitano mentre altri vengono da soli. Stiamo facendo il possibile nel nostro piccolo», conclude.

«Collaboro con la chiesa da quando è arrivato don Gabriele. Siamo andati in via dei Tribunali a portare le cose che abbiamo raccolto con la parrocchia, una raccolta in cui tutta la città di Ercolano ha partecipato», afferma Pina Simeone mentre aiuta la più anziana Rosanna Cozzolino a fare i panini. «Là ho vissuto l’angoscia dei rifugiati ucraini. È vero, diamo gli aiuti ed è bello perché è un gesto fraterno, però si avverte la loro disperazione, non possono fare altro che spedire pacchi, mandano di tutto, però ho capito la loro ansia al pensiero di avere qualcuno lì in pericolo. Nella chiesa ucraina, proprio mentre stavo aiutando, mi ha sopraffatta all’improvviso un senso di inutilità. È frustrante sentirsi impotenti. Certo, si deve fare perché c’è bisogno anche di questo, è importante, però si deve risolvere, la guerra deve finire. Sì, mandiamo gli aiuti umanitari ma là la gente muore e a via dei Tribunali l’ho compreso fino in fondo: i loro occhi, quella tristezza, non c’era gioia nell’accogliere gli aiuti, erano solo disperati», termina sconsolata Simeone.

Padre Gabriele interviene in prima persona quando sente parlare delle donne della regione di Chernobyl che sono ritornate ad Ercolano ed in altri paesi limitrofi dopo circa 30 anni da quando furono «adottate» per la prima volta dalle stesse famiglie che le ospitano ora: «Queste ragazze negli anni hanno continuato a venire in maniera temporanea per cambiare aria dopo l’incidente alla centrale nucleare, venivano ed andavano. Anche mia zia a Napoli ne ha ospitati tanti e ora è ritornata la ragazza che aveva ospitato. Il problema grande è che sono tornati in modo privato, non coordinato, quindi non hanno una copertura sanitaria, non hanno documenti da rifugiati, è come se fossero clandestini. Coloro che stanno arrivando devono arrivare attraverso un canale diverso, devono accettare la condizione di rifugiato in quanto bisogna fare attenzione perché ci sono bambini e vanno tutelati».

«La gente pensa che basti dare la disponibilità per ospitare i bambini ucraini in casa, ma lo Stato li dà solo alle persone che hanno l’idoneità per l’affido o stanno facendo il percorso per ottenerlo, chi non ce l’ha può accogliere solo mamme con bambini o minori accompagnati. Anche perché purtroppo quello che avviene dentro le mura domestiche non si conosce … da un guaio li potresti mettere in uno ancora più grande”, continua il prelato. Nel frattempo arrivano fedeli  alla spicciolata che lasciano pacchi, latte, medicine, casse di bottiglie d’acqua, scatolame vario … “Questo è l’unico spazio che ho, è multifunzione», afferma con fare sommesso come se volesse scusarsi padre Gabriele, una parte sarà per gli ucraini un’altra per i bisognosi del napoletano.

Inoltre il parroco della chiesa di Ercolano descrive la dinamica per gli ucraini che arrivano in Italia, denota la sua esperienza sul campo negli anni passati ad assistere i diseredati, anche stranieri, di Napoli e provincia. «C’è un altro problema. La questura deve ritirare il passaporto a chi fa la richiesta di rifugiato. Cosa sta succedendo? Vanno all’ospedale del Mare, fanno la profilassi, nel momento in cui devono ritirare il passaporto non glielo danno più perché appunto ricevono il titolo di rifugiato. Però loro non vogliono rimanere in Italia, se ne vogliono andare nel nord Europa, perché hanno più possibilità. Gli ucraini che arrivano qui vorrebbero anche un’accoglienza volontaria ma sto avvertendo tutti che la disponibilità è a carico di chi ospita. Invece l’accoglienza che passa attraverso la richiesta ufficiale della  questura è a medio lungo termine, significa un minimo di 6 mesi, quindi chi fa accoglienza privata deve avere una possibilità economica per tenere una persona in casa per un periodo così lungo. Quando finirà la guerra non è detto che possano tornare alle loro case, perché potrebbe essere che siano state distrutte dai bombardamenti», afferma padre Gabriele.

Viene da pensare alla Nakba in Palestina, nel 1948 moltissimi palestinesi furono espulsi dalla propria terra, portarono con loro le chiavi di casa, pensando che sarebbero tornati alla propria abitazione dopo poco tempo. Ma sono trascorsi 74 anni e non sono più tornati, quelle chiavi sono passate di mano in mano ai nipoti che vivono in Siria, Giordania, Egitto … e ormai la maggior parte di quelle case sono state distrutte dai nuovi piani urbanistici o dagli insediamenti israeliani. 

«Come ente ho la casa canonica e stiamo allestendo una stanza per una persona,  ho una disponibilità, raccolgo la comunità ercolanese e vediamo come possiamo fare. Poi dovrò sgombrare tutti i prodotti della Caritas e farò accoglienza per un numero maggiore, per me possono stare fintanto che ne hanno bisogno e va bene perché sono un ente, ma in una casa privata non è tanto semplice», continua padre Gabriele che poi spiega alcune dinamiche interne allo smistamento «Carichiamo anche con vetture di privati che ci aiutano e poi scarichiamo alla chiesa in via dei Tribunali. Ci chiedono alimenti a lunga conservazione e medicinali perché sono quelli che più scarseggiano. La risposta della comunità locale, ma anche di Portici, di San Giorgio a Cremano, di Torre del Greco … è stato molto bella e coinvolgente. Ci hanno portato anche delle culle da campeggio per bambini da mandare su, coperte, indumenti invernali e tanto altro ancora. Ci siamo accorti che gli ucraini che stanno arrivando non sono partiti con grandi valigie, e quindi molti vestiti li abbiamo stipati in comunità da noi per tutti gli ucraini che arriveranno in modo da dar loro la possibilità di avere tutto il necessario. È una situazione in divenire, man mano ci regoliamo come comportarci», conclude padre Gabriele.

Natalya vive a Napoli dal 2001, nella chiesa ucraina in via dei Tribunali sta aiutando a caricare pacchi su un furgone che la notte partirà per andare in Polonia e poi a Leopoli: «Questi due ragazzi arrivati da poco sono i miei nipoti, Nazar di 12 anni e Oleg di 14, la madre è rimasta a casa mia perché era stanca, gli ha preparato il pranzo e poi si è messa a riposare mentre noi venivamo qua, è molto provata, forse più di loro. Il papà è rimasto là nella provincia di Leopoli».

«Siamo andati in Polonia dove ci sono degli amici di famiglia, lì abbiamo dormito una notte e poi siamo venuti in Italia. Ci sono voluti due giorni per arrivare al confine della Polonia con il treno quando invece normalmente ci  vogliono 3 ore e siamo rimasti quasi sempre in piedi», afferma il più grande Oleg che aiuta a portare i cartoni da caricare sul furgone.

«Mi hanno raccontato che i primi due giorni della guerra suonavano sempre le sirene 3-4 volte al giorno e il terzo giorno sono scappati. Per fortuna all’arrivo avevano già l’alloggio a casa mia e di mia madre, sono la zia, quindi hanno un approccio diverso perché avevano una conoscenza, ci sono persone che non conoscono nessuno e non hanno niente qui ed è più difficile», irrompe nella conversazione Marianna, di 35 anni, come se volesse in un certo modo proteggere i nipoti. «Non li avevo mai visti di persona, non torno in Ucraina dal 2007, quando ho raggiunto mia madre Natalya a Napoli e Oleg aveva appena 3 mesi, Nazar lo conosco con le videochiamate che facevamo con mia sorella».

«Siamo stati solo al consolato e alla prefettura. Lavorando tutto il giorno non ho molte possibilità di portarli in giro, poi quando ho tempo sono sempre qua in chiesa per dare una mano. Speriamo che finisca presto perché vogliono tornare a casa. Domani andiamo alla scuola ucraina qua a Napoli e li registriamo così possono iniziare a fare qualcosa e ad integrarsi. A Nazar sì, piace studiare, al più grande un poco meno», Marianna traduce la conversazione e anche i bambini si mettono a ridere prendendosi in giro l’un l’altro. 

«Sono arrivati in tre con un borsone, un solo borsone e gli spazzolini da denti. In Polonia appena attraversata la frontiera li hanno chiamati per prendere un po’ di roba tra pantaloni e giubbotti. Cerchiamo di fare tutto quello che possiamo: portare pacchi o controllare se i vestiti sono buoni o da buttare. Facciamo anche le traduzioni, ma per i medicinali c’è una persona che se ne occupa», conclude Marianna.

«La mia giornata è iniziata il 24 febbraio, questa giornata non finisce mai. Quando mia madre mi ha chiamato e mi ha detto che la guerra era iniziata. Potete immaginare come mi sono sentito perché non conoscevo bene tutta la situazione. Ho acceso la Tv ed ho visto che Putin iniziava questa guerra che, come dice papa Francesco, è una pazzia. È un grande dolore come sacerdote, per me è anche difficile spiegare tutte queste cose perché sono lontano. Ho visto tutto attraverso la televisione, non posso immaginare come possano sentirsi le persone che si trovano sotto i bombardamenti. È triste perché non muoiono solo militari, ma donne, bambini, anziani, non posso pensare a cosa potrebbero fare i militari russi se dovessero entrare nelle case dei civili. Sono crimini contro l’umanità e anche la chiesa russa che dice di benedire la guerra non può essere chiesa di Dio, non è possibile pregare insieme a questi sacerdoti che inneggiano la guerra», afferma padre Zub.

«Il vescovo e la chiesa di Napoli ci sono molto vicini, aiutano sotto molti aspetti, tutti i napoletani si rendono disponibili, in questi giorni vengono diverse persone e vogliono aiutare, portano cose che forse non hanno a sufficienza per loro ma se ne privano pur di spedirle in Ucraina. Questo è un segno di vicinanza, di umanità perché siamo tutti una famiglia a prescindere dalla religione, come padre Gabriele che fa un lavoro incommensurabile. Abbiamo fatto partire diversi tir, uno è arrivato vicino Kiev, da lì smistano i pacchi nella capitale stessa, a Kharkhiv, a Poltava, a Sumy … dove bombardano, dove i militari russi chiudono il corridoio umanitario e ci impediscono di entrare per dare almeno cibo e acqua alle popolazioni. Cerchiamo di arrivare fino a dove è possibile, alcuni bambini muoiono perché non c’è acqua … cosa posso aggiungere – dice affranto il sacerdote della chiesa ucraina a Napoli – Se non possiamo fare nulla lì, cerchiamo di farlo qua, è importante».