Se nel Settecento ai due poli tradizionali del culto per l’antico – Roma e Firenze – se ne aggiunge prepotentemente un terzo – Napoli – ciò si deve a due concomitanti motivi: la straordinaria quanto inattesa scoperta di Ercolano (nel 1738) e Pompei (dieci anni dopo) e la determinazione con cui il re Carlo III volle farne un mezzo per dare lustro alla propria corona. L’esibizione della ‘bella antichità’, come si usava dire, diventava ora possibile anche per il nuovo sovrano, insediatosi proprio nell’anno della scoperta di Ercolano. Nel porre l’esplorazione di quel sito sotto il controllo diretto ed esclusivo del governo, Carlo e il suo primo ministro ‘importato’ dalla Toscana, Bernardo Tanucci, non intendevano solo assicurare i rinvenimenti al regno, impedendone la dispersione fuori dei confini, ma anche avvalersene come strumento di propaganda nei confronti del resto dell’Europa.
L’operazione riuscì benissimo. Per la prima volta, degli scavi archeologici si tradussero in una vasta operazione culturale che accese l’interesse non solo della ristretta cerchia degli antiquari ma dell’intera repubblica delle lettere e di tutti gli uomini di gusto, incidendo sulla stessa idea dell’antico. Fu – come è stato detto – ‘un’avventura dello spirito’. L’erudizione tradizionale si coniugò con la curiosità illuministica, e nobili e avventurieri, filosofi e artisti, si trovarono di fatto accomunati in una ricerca estetica che spaziava in ambiti fino ad allora ignoti: perché Napoli aveva in poco tempo acquisito, rispetto a tutte le altre capitali europee, una documentazione incomparabilmente più completa dell’antichità: non solo statue, ma affreschi (praticamente le uniche testimonianze scampate al grande naufragio della pittura antica), bronzi e papiri in quantità mai vista prima, suppellettili e utensili di ogni tipo. C’era di che alimentare l’aspirazione – tipicamente illuministica – a un sapere universale. Questa conoscenza tutta nuova dell’antichità si sposava infatti con l’esperienza dell’Encyclopédie: le pregevoli tavole incise dei volumi delle Antichità di Ercolano esposte, molte delle quali sono dedicate a oggetti di arte applicata, riecheggiano quelle della monumentale impresa di Diderot e D’Alambert. In questo stesso spirito Fougeroux de Bondaroy pubblicò nel 1770 un libro su Ercolano illustrato non con le solite pitture ma con strumenti di lavoro e di uso quotidiano.
È vero che i volumi dell’Accademia Ercolanese non erano in vendita ma venivano graziosamente donati dal re a pochissimi privilegiati (nessuno dei quali era un connoisseur), e che occhiuti custodi impedivano ai visitatori del Museo di Portici di disegnare alcunché delle meraviglie che vi erano esposte (entrambe le cose erano oggetto di incessanti proteste, soprattutto all’estero), ma quel poco che di straforo arrivava al pubblico fu comunque il più potente volano del neoclassicismo, innescando una moda per le decorazioni ‘pompeiane’ e l’arredamento ‘all’antica’ che furoreggiò in tutta Europa per tutto il Settecento e anche oltre.
Nel secolo dei Lumi Napoli fu importantissima per lo sviluppo dell’archeologia. Mai, fino alla scoperta di Ercolano, gli antiquari si erano confrontati con i problemi che poneva la riesumazione di una città intera, dal punto di vista delle tecniche di scavo, di rilievo, di restauro, di pubblicazione, di musealizzazione. Pur con inevitabili rozzezze (lo scavo per cunicoli, come se si trattasse di una cava da cui estrarre minerali preziosi, e l’asportazione frettolosa di tutto quello che si poteva, affreschi compresi), l’impresa fu un laboratorio importantissimo, anche per la formazione di una coscienza critica negli studiosi.
Il grande antiquario veronese Scipione Maffei intuì che Ercolano era una città-museo, e come tale doveva essere trattata. In uno scritto del 1747 lamenta che «procedendo alla cieca e per cunicoli, e per angusti condotti, molto avverrà di guastare (…), né si potrà vedere mai fabbrica nobile intera, (…) né saper come e dove si collocassero le tante statue e gli altri ornamenti (…). Sgombrando, e lasciando tutto a suo loco, la città tutta sarebbe incomparabile museo». Una magnifica utopia illuministica che cinquant’anni dopo sarebbe stata rilanciata dall’antiquario francese Quatremère de Quincy.
La scena dell’antichistica napoletana del Settecento è popolata di figure affascinanti, talora eruditi di professione, come i fratelli cortonesi Marcello e Filippo Venuti, aperti alle istanze illuministiche; più spesso ‘dilettanti’ dai molteplici interessi, quale fu lo stesso Tanucci, che negli anni pisani aveva combattuto con le armi di una filologia venata anch’essa di illuminismo le spudorate falsificazioni testuali messe in atto dagli uomini di Chiesa. Famosissimo fu Sir William Hamilton, diplomatico inglese accreditato alla corte napoletana, uomo di mondo, studioso di vulcanologia e grande collezionista di antichità, che con audacia da libertino indagò le sopravvivenze del culto di Priapo nel regno di Napoli. Ben noto fu anche il suo non irreprensibile sodale, quel Pierre-François Hughes, sedicente barone d’Hancarville, grande esperto di vasi greci, che i contemporanei descrivono animato «dall’interna smania di veder tutto, di conoscer tutto; e che di aver tutto veduto, tutto conosciuto, ci persuade con le dottissime opere sue, col suo fecondo ed immaginoso parlare». Personaggi come questi poco hanno a che vedere con quegli ‘anticomani’ satireggiati dai philosophes (Diderot in testa), che spingevano il culto del passato fino al ridicolo.
Ad arricchire il quadro dell’antiquaria napoletana di questo periodo viene ora il volume La cultura dell’antico a Napoli nel Secolo dei Lumi (L’Erma di Bretschneider, pp. 516, € 384,00), curato da Carmela Capaldi e Massimo Osanna. Dedicato a Fausto Zevi, eminente archeologo, già Soprintendente alle antichità di Napoli e di Pompei e docente nell’ateneo napoletano, per i suoi ottanta anni, il libro raccoglie gli atti del convegno internazionale dallo stesso titolo svoltosi a Napoli ed Ercolano nel 2018. Gli oltre quaranta contributi sono suddivisi in cinque sezioni: Il gusto per l’antico, Documentare l’antico, Antiquaria e collezionismo, Scavi e scoperte, Profili biografici tra mito e realtà.
Non era facile dire qualcosa di nuovo su temi come questi, sui quali esiste già un’imponente bibliografia. Ciò spiega forse perché buona parte degli autori abbia affrontato argomenti circoscritti, e solo pochi abbiano tentato sintesi di più ampio respiro. Alcuni saggi, poi, si soffermano su personaggi e contesti solo latamente correlati all’assunto espresso dal titolo dell’opera. Pur con questi limiti, l’insieme non è privo di interesse, soprattutto per gli specialisti.
Lo stesso Zevi, tirando le conclusioni del convegno, ha sottolineato alcune delle acquisizioni più rilevanti, poi confluite negli atti. Al centro di molti studi c’è, comprensibilmente, la figura di Winckelmann, del quale è sempre più chiaro il rapporto conflittuale con Napoli, o meglio con quella corte che sempre lo trattò con sufficienza e sospetto. Un altro grande protagonista è Piranesi, di cui si indaga specialmente l’incontro con i monumenti di Paestum, individuando nell’ultima fatica dell’architetto e incisore latenti consonanze con il pensiero vichiano. Anche l’abate Galiani acquista in questo volume il rilievo che merita, sia come collezionista in proprio che come apostolo dell’illuminata antiquaria napoletana nella patria stessa dei Lumi, Parigi. Ma l’attenzione del volume si appunta anche su personaggi meno eccezionali. Ne è un esempio il bel saggio consacrato allo studio analitico dei souvenirs che alcuni gentiluomini inglesi avevano acquistato nella tappa campana del loro Grand Tour e che nel 1779 avevano spedito, insieme ai loro diari, in patria. La fregata Westmoreland non arrivò mai in Inghilterra. Fu catturata da una nave da guerra francese e il bottino fu venduto in Spagna. Ora la ricomposizione virtuale del carico ha offerto uno spaccato di quel mondo di giovin signori per i quali la visita delle antichità di Ercolano e Pompei rappresentava un’esperienza formativa straordinaria. A conferma che la Napoli dei Lumi fu un momento imprescindibile della storia culturale europea.