Era ubicato al numero 254 Ovest della Cinquattaquattresima Strada a Manhattan, tra la settima e l’Ottava Avenue. Per tre anni è stato il locale di cui si è parlato di più al mondo. Era lo Studio 54 e a questa che era stata definita una mecca di folli e di magia, Matt Tyrnauer ha dedicato un documentario di novanta minuti, passato al Sundance e nelle sale cinematografiche americane lo scorso giugno (ora è su Amazon Prime Video, ma solo in Inghilterra per il momento) e che il Festival dei Popoli proporrà al pubblico il prossimo 9 novembre al cinema La Compagnia (21.30). Trentatre mesi, tanto durò l’ubriacatura del locale che segnò l’apice della disco music e il suo declino. Il documentario di Tyrnauer si concentra sul racconto della sua nascita, nelle parole di uno dei due fondatori, Ian Schrager che aprì lo Studio 54 insieme a Steve Rubell. Amici dall’università, si misurarono prima nella gestione di ristoranti per poi provare a lanciarsi nel rutilante mondo delle discoteche.

Il primo tentativo di trasformare uno dei loro locali nel Queens in una discoteca chiamata Enchanted Garden partì bene ma si eclissò repentinamente: chiusura per «rumori molesti». Poco male perché a Manhattan Uva Hunder, un indossatore tedesco, si mise in testa di aprire un locale e lo trovò nella cinquantaquattresima. Un vecchio spazio nato nel 1927 in pieno proibizionismo e trasformato prima in un teatro opera poi in un casinò, fino ad essere rilevato dalla Cbs che lo convertì in un teatro di posa. Ma quando il network si trasferì a Hollywood, l’edificio finì in stato di abbandono finché Hunder non lo affittò nel 1976. I soldi terminarono presto e in suo soccorso arrivarono proprio Rubelle e Schrager, che dopo una lunga contrattazione lo liquidarono riuscendo poi a trovare i 400 mila dollari necessari per l’investimento. Lo Studio 54 – così come raccontato nelle testimonianze raccolte dal regista – fu progettato in sei settimane con lo scopo che diventasse il luogo più esclusivo della Grande mela. Una pista da ballo incredibile di 1.800 metri quadrati su cui vennero costruite ben 54 tipi di luci diverse che si alzavano e si abbassavano sui ballerini e sul dance floor.

L’inaugurazione in un freddissimo 26 aprile del 1977 e il successo fu immediato: l’immagine di Bianca Jagger che galoppa su uno stallone bianco all’interno del club e ancora oggi un simbolo di quegli anni. In quel club arrivavano tutti: Michael Jackson giovanissimo con pettinatura afro e non ancora sfigurato dalla chirurgia estetica, timidissimo in un’intervista con una giornalista della Nbc. E poi Andy Warhol, Liza Minnelli, Truman Capote, Diana Ross, ma il club viveva – così racconta nel documentario – anche di bizzarri personaggi come Rollerina, la stella che ballava sui pattini – e che avrebbe ispirato P.T. Anderson per Heather Graham versione porno star in Boogie Nights, o Potassa, un coloratissimo travestito spagnolo. Il doc di Tyrnauer non si limita però a un nostalgico ricordo degli anni di successo del club, ma attraverso le interviste, i materiali d’archivio foto e video inediti, ricostruisce anche i dettagli su come Schrager (Rubell era più concentrato sulla parte ludica e creativa) operava: la lista delle star accreditate sempre e comunque, i party a tema su cui i media ritornano ossessivamente a cadenza quotidiana e i contorni più oscuri, come i sussurrati legami con la mafia – il padre di Schrager era infatti un padrino conosciuto come Max the Jew, le piccole contraddizioni – e le spese folli di gestione. Schrager ha sempre ammesso le sue responsabilità sulla caduta dello Studio 54: non avevano permessi di alcun tipo, né per costruire né per servire gli alcolici. Ma negli anni di successo tutti chiusero un occhio, solo il fisco indagò incuriosito da un’incauta dichiarazione di Rubell che in un’intervista al Ny Magazine dichiarò che «solo la Mafia fa di meglio dello Studio 54». Detto fatto, bastò dare un’occhiata ai fondi per chiudere tutto e i due soci, in mancanza di condoni, furono condannati a 20 mesi di carcere. La pena doveva essere doppia, ma Shragere fece il nome di altri locali che evadevano le tasse. E nel documentario più che della condanna, Schrager si vergogna proprio di questa soffiata. Poi si rifarà una carriera, aprendo una catena di hotel che porta il suo nome, fino alla grazia definitiva arrivata sotto Obama. Più sfortunato Rubell, morto per Aids nel 1993.

Ciò che Tyrnauer non affronta nel film è quanto lo Studio 54 incise realmente sulla scena disco – non ci sono interviste a dj – e sulla comunità queer, se non una breve dichiarazione di Nile Rodgers che con gli Chic trionfava su quel dance floor. Perché non era mai successo prima e probabilmente mai sarebbe accaduto poi, come scrivono Alain Jones e Jussi Kantonen in Love Train: «che superstar e gente comune si mescolassero sull’altare della disco music. Perché una volta superate le famigerate transenne di velluto e traversate le imponente porte d’ingresso, il tempo si fermava. Eri giovane e per sempre e domani non era un altro giorno, ma era per sempre il perpetuo, favoloso per sempre».