Il Brasil Film Fest (Bari 7-15 ottobre) conferma l’impegno da parte dell’associazione Abaporu nella diffusione della cultura brasiliana scegliendo, per questa edizione, il tema dell’accoglienza e tolleranza di fronte alle ondate d’immigrati e rifugiati politici, come l’attenzione verso la parte più “debole” e povera della società brasiliana.

Tra i film presenti, Era o Hotel Cambridge di Eliane Caffè riassume perfettamente i temi del festival dove con distanza calcolata la macchina da presa, come un occhio che spia nei muri sgretolati la quotidianità dei protagonisti, raccoglie e restituisce la realtà della società più povera di San Paolo stigmatizzata dal fenomeno delle case occupate. Gli occupanti dell’hotel Cambridge tra riunioni, manutenzione dello stabile e organizzare spettacoli e manifestazioni, hanno quindici giorni di tempo per prepararsi a fronteggiare lo sfratto giudiziale eseguito dalla polizia antisommossa. Come rivela la sceneggiatrice Ines Figueiro, presente in sala, il problema della povertà in Brasile è aumentato in maniera esponenziale: la presenza di 900.000 case abbandonate, evidenzia la sproporzione fra i senza tetto e i proprietari degli edifici; sproporzione amplificata dall’arrivo d’immigrati e rifuggitati politici.

Il film, premiato nel 2015 al Cine en Construcción e selezionato l’anno seguente nella sezione Orizzonti latini del festival di San Sebastian, nasce dagli incontri con le associazioni MSTC (Movimento senza tetto del centro) e GRIST (Gruppo rifugiati e immigrati senza tetto), ma soprattutto dalle interviste e Workshop tenuti dalla regista con gli occupanti che diventano cooprotagonisti zavattiniani – a fianco ai due attori professionisti José Dumont e Suely Franco – interpretando se stessi e raccontando la loro storia. Come l’attivista Carmen Silva che interpreta se stessa nel ruolo di Donna Carmen, leader carismatico che guida i nuovi inquilini a occupare i palazzi abbandonati nel giorno della loro “festa” e insegna agli occupanti ad agire di fronte alle forze dell’ordine. La pellicola ha la forza di un manifesto e le sfumature di un’epopea umana, un ibrido tra documentario e finzione, dove la sceneggiatura preesistente funge da linea guida, ma si arricchisce e si colora della vita e della storia degli occupanti: i flashback nelle miniere di coltan in Congo da cui Ngandu è scappato, le telefonate via Skype di chi è rimasto solo. E ancora, la figura poetica del palestinese Isam (Isam Ahamad Issa) che nelle sue parole riporta la saggezza universale di coloro che sono fuggiti alla guerra e cercano stabilità nella solidarietà e nella convivenza.

Ed è nella convivenza e integrazione culturale tra brasiliani, immigrati e rifugiati politici che il popolo delle favelas trova la forza per far fronte comune alla precarietà e all’urgenza di trovare una nuova identità sociale, come Gisele Marie protagonista de Il seme Rock nell’islam latino di Gianni Torres. La figura di Gisele, chitarrista mussulmana sunnita, in niqab e il suo gruppo trash Heavy Metal Eden Seed, racconta il regista, è la dimostrazione del modo in cui una popolazione multietnica, plurireligiosa e aperta alla tolleranza come quella brasiliana, sappia accogliere, contaminare, trasformare e infine sgretolare le tradizioni più integraliste come per esempio quella islamica.