Alla Leopolda l’accoglienza è stata fredda. Sabato a Firenze l’ex ministro dell’interno Marco Minniti, candidato in pectore al congresso Pd, è stato in prima fila a lungo, solitario e poco incline alla chiacchiera. In una pausa dei lavori ha avuto un colloquio con l’ex segretario che gli ha assicurato il suo appoggio, ma promettendo di non infliggergli lo stigma del candidato renziano. Dal palco, poi, Renzi l’ha messa così: «Non abbiamo parlato del congresso, abbiamo partecipato per due volte e per due volte abbiamo vinto con il 70 per cento e per due volte ci hanno fatto bersaglio di fuoco amico. Noi daremo a chi vincerà il congresso del Pd la collaborazione che noi non abbiamo ricevuto».

Nel congresso Renzi si ritaglierà un ruolo non di prima fila, puntando invece sui comitati civici che guardano fuori dal Pd. La sua cautela non è dovuta solo al timore di doversi accollare l’eventuale sconfitta dell’ex ministro. Il fatto è che fra i renziani, specie nell’area Lotti, di ora in ora cresce la fronda anti-Minniti. Non sono pochi quelli che a Firenze gli hanno ripetuto che «era meglio tenersi Martina», uno che avrebbe garantito la pacifica coabitazione nel partito. Le dichiarazioni ufficiali vanno in tutt’altro senso. Ma più degli endorsement per ora contano i silenzi. Una volta rimbalzato il suo nome sui giornali, Minniti si aspettava più incoraggiamenti. A un certo punto è girata anche la voce che l’ex ministro Delrio preferisse appoggiare Richetti, piuttosto che l’ex collega del quale non ha condiviso la politica sui migranti. Voce subito smentita, ma emblematica del disagio fra quelle file.

Certo, fra i renziani c’è chi lo considera un ottimo candidato, come Lorenzo Guerini. Chi come Emanuele Fiano ne loda «l’idea della politica molto seria». Chi invece per realpolitik spiega che «non è il candidato ideale ma dopo Renzi abbiamo bisogno di radicalità e lui la rappresenta. Chi vede Minniti sa dove trova il Pd», mentre Zingaretti «è inafferrabile, è veltronismo senza Veltroni, non è neanche la svolta corbyniana. E non è cresciuto neppure in queste settimane che era l’unico candidato». In più Minniti, ex dalemiano, «rimescola le carte trasversalmente», ovvero intercetta il voto ex pci. La ’giovane turca’ Katiuscia Marini, per esempio, potrebbe appoggiarlo, e sarebbe un colpo basso a Zingaretti da quel che resta dell’Umbria rossa.

Eppure Minniti parte con alcune penalità. Con oigni probabilità presenterà la sua candidatura il 6 novembre, al lancio del suo libro Sicurezza è libertà (Rizzoli), con Monsignor Becciu, Gianni Letta e Walter Veltroni. Ma fatalmente la carta che i renziani reputano vincente in prospettiva potrebbe essere un handicap.

A sinistra, dentro e fuori dal Pd, non gli viene perdonato di aver iniziato il ridimensionamento della presenza delle Ong nel Mediterraneo, oggi portata alle estreme conseguenze dal successore Salvini. Né gli sono perdonati i decreti ’sicurezza’ e ’migranti’ che nell’aprile del 2017 introdussero il «daspo urbano» e velocizzarono le espulsioni degli irregolari, poco apprezzate dall’associazionismo cattolico. Non è un buon viatico per le future alleanze, quelle su cui invece Zingaretti prova a costruire la narrazione del suo nuovo Pd «rigenerato», aperto al centro e a sinistra. «La parola alleanza è una bella parola e non un insulto», ha ribadito Zingaretti ieri da Terni, annunciando la costituzione del 260esimo comitato Piazza Grande. «Bisogna smetterla di pensare che tutti coloro che non sono del Pd siano nemici del Pd».