Aveva 85 anni e un cancro, Frederik Willem de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica, morto ieri mattina nella sua casa di Fresnaye. Era membro del National Party (Np), il partito al governo che dal 1948 ha portato avanti la politica di discriminazione razziale nota come apartheid. Ma certo passerà alla storia per aver liberato Nelson Mandela dopo 27 anni di carcere e aver dato la stura ai negoziati che apriranno la strada alla fine del regime dell’apartheid e alle prime elezioni libere.

Per questo, insieme con Mandela, de Klerk è stato insignito del Nobel per la pace nel 1993, ma sembrò più un contributo alle velleità di riconciliazione pacifica di cui la società sudafricana aveva un disperato bisogno che una condivisione fifty-fifty dei meriti acquisiti in quel passaggio storico. Un’esagerazione in fondo, emersa chiaramente come tale quando de Klerk svicolò in tutti i modi di fronte alle sollecitazioni che esigevano non solo di condannare certi aspetti dell’apartheid, come effettivamente fece, ma il sistema dell’apartheid nel suo insieme.

L’EX PRESIDENTE in sostanza si è sempre rifiutato di riconoscere che le immani sofferenze inflitte a milioni di sudafricani neri dal regime di cui era espressione configuravano il reato di crimini contro l’umanità a tutti gli effetti.
L’attuale presidente, Cyril Ramaphosa, che si distinse nella sua capacità di negoziare con de Klerk l’estensione dei diritti civili alla popolazione nera e tutto il resto, ieri lo ha ricordato come un uomo che aveva abbracciato il regime costituzionale democratico ponendo il futuro del Paese al di sopra dei meri interessi politici. «Ha svolto un ruolo chiave nel portare la democrazia nel nostro Paese». Certo, come leader politico «è stato ampiamente screditato in relazione al ruolo che il Partito nazionale ha svolto nell’applicazione dell’apartheid», ha sottolineato Ramaphosa, ricordando che «le politiche attuate dal regime dell’apartheid hanno causato molto dolore a milioni di sudafricani che non dimenticheranno mai. Ma in quanto essere umano, oggi è importante porgere le nostre condoglianze».

IN MOLTI IERI, senza arrivare ai toni accesi con cui i membri del partito Economic Freedom Fighters hanno contestato de Klerk nella sua ultima apparizione in parlamento, lo scorso anno, ne hanno parlato come di un presidente che ha fallito nel tentativo di riconciliazione del popolo sudafricano.

1990, de Klerk annuncia la liberazione di Nelson Mandela

È vero che nel 1990 il governo di de Klerk rilasciò il leader dell’Anc Nelson Mandela, pose fine alla messa al bando dei partiti anti-apartheid incluso lo stesso Anc e si impegnò a negoziare la transizione democratica sfociata nelle prime elezioni democratiche del 27 aprile 1994, quando i sudafricani votarono per mettere fine al regime suprematista bianco. Ma i quattro anni dal 1990 al 1994 furono un periodo molto turbolento: gli anni più sanguinosi della storia del Sudafrica durante l’apartheid, con intensi conflitti e competizioni per il potere politico paragonabili a una guerra civile, con epicentro nel KwaZulu-Natal e nella zona industriale orientale di Johannesburg nota come East Rand. I morti dovuti alla violenza politica (spesso anche criminale) nota come udlame furono circa 14 mila.

QUELLA CAMPAGNA DI VIOLENZA secondo molti analisti sarebbe stata orchestrata dallo stato, da quella che fu chiamata la «terza forza», composta dalla polizia e da militari che collaborarono con l’Inkatha Freedom Party (IFP), partito a maggioranza Zulu, rivale dell’Anc, per screditare il partito di Mandela nel periodo che precedette le elezioni. E spesso armarono la formazione guidata da Mangosuthu Buthelezi. De Klerk sarebbe stato al corrente. Eppure, dal 1994 al 1997, quando il Sudafrica era governato da un governo di unità nazionale gudato da Nelson Mandela e dall’Anc, De Klerk ha ricoperto il ruolo di vicepresidente insieme a Thabo Mbeki.

Come ha scritto Nadine Gordimer su questo giornale, tornando dalla manifestazione di bentornato organizzata a Soweto per il futuro primo presidente nero del Sudafrica, «il coraggio del presidente De Klerk nel liberare Mandela ha come suo ironico risvolto la zelante sottomissione a questa idea». E cioè che Mandela fosse l’unico in grado di «assolvere e risolvere: assolvere il peccato dell’apartheid e risolvere il problema della riconciliazione e dell’integrazione».

Per dirla con lo stesso Madiba, De Klerk, conservatore afrikaner, semplicemente non aveva altra scelta. Ma fino all’ultimo – lo segnalava Breyten Breytenbach, sempre sul manifesto durante i giorni difficili della transizione, contava «sulla dissoluzione del campo di riferimento socialista internazionale e sull’accelerarsi del discredito dell’Africa indipendente per rifarsi una verginità».

NEL SUO LIBRO DEL 1999 No Future Without Forgiveness (Non c’è futuro senza perdono) l’arcivescovo Desmond Tutu me parlava come di una figura controversa, un uomo che aveva mancato di generosità e magnanimità. In tanti, come la scrittrice Antjie Krog, hanno chiaramente detto che le scelte politiche di de Klerk e la transizione dall’apartheid alla democrazia non sono state dettate da motivi etici, ma puramente pragmatici. Alla fine degli anni 80 il regime dell’apartheid era inesorabilmente in declino, le violenze aumentavano esponenzialmente e un cambiamento era inevitable.

QUESTI GIUDIZI CONTRASTANTI sono stati resi ancora più complessi dal lavoro della Truth and Reconciliation Commission (TRC), in cui Desmond Tutu giocò un ruolo fondamentale. Formata nel 1995, fu un’istituzione che diede la possibilità a vittime e carnefici di confrontarsi per la prima sulle violenze del regime dell’apartheid. Ma secondo un rapporto della commissione del 2003, de Klerk aveva «mancato di candore» per non aver confessato ed esposto le tante violazioni dei diritti umani. Addirittura, de Klerk avrebbe giocato un ruolo diretto nell’impedire alla TRC di comprometterlo nel rapporto finale.