«Era un avversario politico. Con lui se ne va un pezzo della storia d’Italia, dei cattolici in politica, verso il quale bisogna avere un occhio storico senza rimpianti e né demonizzazioni. Cosa resta? Difficile dirlo: in questi anni è mancata un’analisi critica delle forze politiche, del Pci della Dc e del Psi. Su quello che sono state, su quello che hanno lasciato, su cosa era possibile recuperare e cosa invece ormai erano scorie. Capisco che è più facile dire: fa tutto schifo». Sono stati in molti in queste ore a chiedere una testimonianza su Giulio Andreotti a Emanuele Macaluso, politico e giornalista di grande classe (classe ’24, peraltro), segretario della Cgil siciliana dal ’47 al ’56, poi segretario regionale del Pci, migliorista senza tenerezze per i suoi, membro della segreteria di Togliatti, di Longo e di Berlinguer. Poi direttore dell’Unità negli anni 80; e ancora oggi implacabile analista del collasso della sinistra di derivazione Pci.

Si chiede a lui non solo per i suoi due saggi sul politico dc (Andreotti fra stato e mafia, edizioni Rubettino, del ’95, e un altro recente, per lo stesso editore, raccolto in Giulio Andreotti. L’uomo, il cattolico, lo statista, basato sulle carte custodite all’Istituto Sturzo di Roma, volume curato da Mario Barone e Ennio di Nolfo). O perché è stato testimone dei rapporti complessi fra la sinistra e Andreotti: «Era un avversario, ma come ministro degli Esteri fu anche molto vicino alla politica del Pci di apertura ai paesi arabi. Per questo aveva un rapporto con Giancarlo Pajetta e Paolo Bufalini. Sostenne anche l’Ostpolitik, la politica di normalizzazione con la Ddr. Ma era contrario all’unificazione delle Germanie. Ricordo che quand’ero ancora direttore fu invitato a una festa dell’Unità. E lui, che pure era amico di Helmut Kohl, era tutt’altro che favorevole all’unificazione. Lo disse apertamente: riteneva che ci volesse il consenso dell’Urss, disse, a noi». «Amo talmente la Germania che ne preferivo due», fu poi uno dei memorabili motti andreottiani post-89.

Ma soprattutto si chiede di Andreotti a Macaluso perché la sua storia politica si intreccia con quella del ’divo’. Da avversario, appunto, ma politicamente corretto, almeno rispetto ai suoi. «Nell’80, alla commissione al senato sull’affare Sindona, pronunciai io il discorso per chiedere le sue dimissioni. Ma ho sempre considerato il ’caso Andreotti’ un caso politico, non giudiziario. Andreotti era la quintessenza della Dc», racconta. «Il primo guaio che ebbi con quello che negli anni 90 era il mio partito, il Pds, fu per due articoli che scrissi sul processo Andreotti. Li scrissi proprio sul manifesto nel ’95. Suscitarono un bordello: secondo alcuni dirigenti delegittimavano la magistratura e favorivano la mafia. Li querelai, ritirarono le accuse. Ma ci fu chi disse che ero un San Michele Arcangelo della lotta alla mafia».

Quei due formidabili articoli erano in realtà tre: ai primi seguì una sua risposta a pezzo in cui si riportavano i giudizi di alcuni dirigenti Pds contro di lui. Pesantissimi. In tutti e tre vi sosteneva la tesi che Macaluso poi ha replicato, meno solo, negli anni a venire. Vi si legge: «Dire, come è stato detto che Dc uguale mafia è una sciocchezza. La Dc è stata tante cose: ha mediato interessi popolari vasti e di gruppi chiusi di potere, ha ospitato anticomunisti per convinzione o per convenienza, cattolici e atei, anime pie e malfattori. Nel cinquantennio ha costruito e rinnovato il blocco sociale e politico di governo con il concorso del capitalismo arretrato e avanzato del nord, gli agrari e i ceti parassitari del sud. Andreotti è stato un pezzo importante di questa continuità, al punto da essere l’uomo che Moro volle al governo di solidarietà nazionale, avviando un nuovo rapporto col Pci di Berlinguer. Come si colloca in questa quadro l’azione giudiziaria che coinvolge Andreotti e ora Mannino?».

Dal suo partito lo si accusò di attacchi alla procura, di essere «un pezzo di quell’equilibrio consociativo che ha distrutto la Sicilia negli anni 80». L’eco degli scontri di questi anni, fra la politica vicina ai magistrati e quella no, è impressionante. La vicenda era complessa, spiega oggi lui. «Il rapporto fra mafia e politica non era solo di Andreotti, metterla in capo a un uomo solo era un errore. Era della Dc, nel suo complesso, regionale e nazionale. Non è che gli altri dirigenti hanno avuto un atteggiamento diverso, o referenti diversi. Appunto, lui era la sintesi della Dc. Un concentrato».