Mezzo secolo di storia, e che storia. Tra le poche organizzazioni nate nel mitico 1968 e ancora in grado di produrre forme di lotta c’è l’Unione inquilini. A metà tra un movimento e un sindacato, mosse i primi passi nella periferia grigia di Milano, a Quarto Oggiaro, ed emise i primi suoni nella lingua dura nei gruppi marxisti leninisti rivoluzionari. Ma senza seguirne il declino. In cinquant’anni l’Ui ha aperto sedi in 15 regioni, 45 province e 52 comuni italiani e conta tra le 30 e le 40 mila famiglie iscritte all’anno, secondo i dati del ministero delle infrastrutture. A Roma oggi è il primo sindacato nelle case Ater, ed è riconosciuto tra i primi tre maggiormente rappresentativi degli inquilini a livello nazionale dalla legge 431 del 1998, quella che abolì l’equo canone. Occupazioni e case popolari continuano ad essere terreno privilegiato di intervento, per l’Ui, ma il linguaggio è diventato internazionale e tra i suoi compagni di strada ci sono Libera e Save the children.

Massimo Pasquini, anche se lei nel ’68 non era ancora il segretario nazionale dell’Ui, torniamo alle origini: Quarto Oggiaro, periferia nord ovest di Milano.
Un quartiere con forte presenza di case popolari. Erano gli anni del boom economico, dell’emigrazione dal sud e gli emigrati avevano bisogno di case, non certo quelle reperebili sul mercato. Nasciamo così: sul terreno delle lotte per la riduzione dell’affitto e sulla qualità del vivere, sui servizi, sul degrado, nella ferma convinzione che ci sia un rapporto diretto tra salario e affitti. Ma il radicamento più importante era nelle case popolari. E a Quarto Oggiaro c’erano le punte più avanzate di questo movimento per la casa, comitati che cominciarono a coordinarsi in rete in modo da essere più incisivi. L’Ui aveva anche un quotidiano che tirava 18 mila copie, vendute a Milano e nell’hinterland. È ancora quello il territorio dove siamo maggiormente radicati ma negli anni abbiamo cominciato a spostarci anche verso sud: da Torino via via sono state aperte sedi a Bologna e Firenze e poi Roma e Napoli, dove oggi siamo molto presenti. Crescendo ci siamo dati un’organizzazione anche di tipo sindacale e non soltanto di movimento.

Un sindacato un po’ sui generis, però.
Ancora oggi l’Ui è un sindacato border line, non ha né distacchi sindacali né funzionari pagati. Offre sponda sia per iniziative dirette di lotta come le occupazioni ma anche e soprattutto per consulenze, difesa legale e tutti i servizi per far valere i diritti degli inquilini.

Le case popolari sono ancora il vostro terreno privilegiato d’azione. Ma in quali città siete più presenti?
Sempre di più anche nei piccoli e medi centri. Negli ultimi mesi abbiamo aperto sedi a Enna, Foggia, tra poco a Lamezia. Infatti il ministero dell’Interno, nella rilevazione annuale sul rapporto tra le sentenze di sfratto emesse e le famiglie abitanti a livello provinciale, mette ai primi dieci posti in Italia, nell’anno 2016, non le grandi aree urbane ma Modena, Barletta, Pescara, Imperia, Prato, Savona, Torino, Cosenza , Taranto e Rimini. E se prendiamo ad esempio la provincia di Modena, al primo posto, con una sentenza di sfratto ogni 172 famiglie abitanti, e ci concentriamo sulle sole famiglie in locazione privata (diciamo il 20%), otteniamo un dato agghiacciante: una sentenza di sfratto emessa ogni 34 famiglie. È nelle piccole città, dunque, e non nelle grandi aree urbane dove il numero assoluto di sfratti è ovviamente alto, che si concentra il problema del ricorso alla forza pubblica per eseguire sfratti di famiglie in locazione privata. Questo perché il 90% degli sfratti in Italia è per morosità. Ed è proprio nelle città medie del nord – Modena, Bergamo, Brescia – che, in particolare dal 2008, si concentrano, oltre alle famiglie italiane colpite dalla crisi, anche quelle di immigrati che si erano integrate benissimo, lavoravano e avevano una casa e con la crisi hanno perso tutto.

Quando l’Ui venne fondata gli unici immigrati di cui vi occupavate erano i meridionali che cercavano lavoro nel nord Italia o al di là delle Alpi. Come è cambiato oggi il vostro modo di intervenire in un tessuto sociale così trasformato?
Bisogna dire che oggi, rispetto ad allora, lavoriamo con fasce di popolazione mediamente ancora più povera, dove è forte la presenza di famiglie di immigrati per i quali il problema della casa è rilevantissimo.

Non è più difficile con le famiglie di immigrati extra comunitari portare avanti un programma simile a quello che rivendicavate nel 1971 quando l’Ui ambiva a costruire un «movimento di massa anticapitalistico e antiriformistico»? Insomma, è ancora viva quell’ambizione o si è infranta da qualche parte?
Non è morta, si è evoluta. Noi ci consideriamo ancora soggetti politici. Siamo partiti da un anticapitalismo forse un po’ di maniera ma comunque connotato da un forte legame con i soggetti sociali con i quali lottavamo. Oggi le politiche liberiste attaccano pesantemente la condizione di vita delle persone, nel lavoro come nella dimensione quotidiana, e i diritti sottratti diventano sempre più interconnessi: la casa, la salute, il servizio pubblico…. In questo senso troviamo un forte legame con il passato: quella lotta non si è fermata, si è trasformata insieme alle città e ai soggetti sociali che le abitano.

Cinquant’anni non sono bastati però per costruire quel movimento di massa…
Ma stiamo continuando a costruirlo. Ci sentiamo ancora parte integrante di un altro mondo possibile, e perciò articoliamo i nostri rapporti con altri soggetti che riflettono come noi sui modelli organizzativi sociali. Perché sappiamo che solo nella solidarietà c’è la possibilità di vincere. Faccio un esempio: se accettiamo il concetto che nelle nostre città non si può far crescere il numero di case popolari, allora le graduatorie e le assegnazioni diventano terreno per fomentare il razzismo, pre creare competizione e odio sociale, e per le strumentalizzazioni da parte di organizzazioni neofasciste. Le politiche abitative devono invece rispondere alle esigenze di tutti i segmenti della precarietà. Questo è oggi uno degli assi portanti del nostro intervento: ribaltare il ragionamento che parte dall’assunto che ci siano pochi soldi (falso) e poche case popolari (vero, ma è una scelta) e che quindi bisogna agire sulle graduatorie.

Quali sono le nuove difficoltà che incontrate?
Abbiamo due tipi di difficoltà diverse: da una parte gli italiani che entrano in competizione sui diritti e dall’altra gli immigrati che per paura o per mancanza di conoscenza accettano qualsiasi condizione e rinunciano ad emanciparsi. Va detto però che c’è anche un protagonismo di lotta degli immigrati, anche se parliamo di settori non maggioritari, è comunque crescente la consapevolezza che i diritti si ottengono nella solidarietà.

Non siete più così refrattari, però, all’idea di riformare le istituzioni…
È evidente che nel corso di mezzo secolo abbiamo trasformato il nostro linguaggio, che non è più “rivoluzionario”. Ma quello che notiamo è ancora un problema di rappresentanza politica. Una sinistra che sappia fare sintesi dei movimenti di lotta e ne rispetti l’autonomia non la vediamo.

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Volantino elettorale del 1972 dei candidati dell’Unione inquilini presenti nelle liste del quotidiano «il manifesto»

L’ultima volta che l’Ui entrò in modo organico in una competizione elettorale fu nel 1972, quando i vostri candidati confluirono nelle liste del manifesto?
Sì, a parte alcuni singoli compagni del sindacato che si sono candidati in varie liste di sinistra, o qualche esperienza di lista in alcune città. Abbiamo sempre preferito contribuire con iniziative di programma a creare un fronte di sinistra che sia capace di rappresentare certe istanze, senza entrare nell’agone elettorale.

E siete invece usciti dai confini nazionali.
Circa 15 anni fa abbiamo promosso una rete internazionale, l’Alleanza internazionale di abitanti, che raggruppa centinaia di comitati, movimenti e sindacati e crea iniziative mondiali in Europa, Africa e Sudamerica, come il mese di ottobre dedicato agli sfratti zero . La relazione di reti, in particolare quelle europee, è diventata molto importante, perciò stiamo lavorando molto in sinergia con sindacati e movimenti in Germania, Francia, Spagna, Grecia e in Russia.

Stesso tipo di problemi anche nei Paesi del nord Europa?
La shock economy e la liberalizzazione dei canoni hanno creato problemi ovunque, in Europa. Ovviamente l’impatto della crisi economica è diverso, visto che nella media europea il 16% degli immobili è sociale, mentre in Italia abbiamo solo il 3,5% di case popolari. Un numero talmente esiguo che comporta 70 mila sfratti all’anno e 650 mila famiglie nelle graduatorie. La differenza sta nelle scelte economiche di base, che attengono anche alla cultura del Paese: in Germania la maggior parte degli immobili è in locazione, come lo è il 60% del costruito nei Paesi Bassi. L’Italia assomiglia di più alla Spagna, dove però la crisi economica ha prodotto un’ondata di sfratti dovuta al mancato pagamento dei mutui (che le banche avevano concesso a manica larga). In Italia invece la stragrande maggioranza degli sfratti deriva dall’insolvenza della locazione: 70 mila famiglie ogni anno, di cui la metà, ossia 140 famiglie al giorno, viene sfrattata con la forza pubblica.

Nei Paesi protestanti la casa si affitta.
Sì, in generale è nei paesi cattolici che aumenta la propensione all’acquisto della casa, in chiaro contrasto con le politiche economiche liberiste che si fondano sulla precarietà, sul lavoro a intermittenza, sulla mobilità. Che senso ha un Paese bloccato dall’80% degli immobili di proprietà che nel frattempo ambisce a sviluppare flessibilità, ovvero precarietà di lavoro e di vita? Lo ripeto: casa e lavoro sono strettamente connessi, e non a caso è quella tedesca, l’economia trainante. Va ricordato che l’unico sciopero generale che c’è stato in Italia sul tema della casa è stato organizzato da Cgil Cisl e Uil nel 1969, sotto la spinta di un forte movimento radicale. L’unico, da allora mai più.

Eppure si continua a porre l’accento sull’edilizia, pubblica o privata che sia.
Noi oggi insistiamo invece sulla possibilità di recupero e autorecupero dell’immenso patrimonio privato, civile e militare esistente, per garantire alloggi a canone sociale rapportati al reddito senza alcun consumo del suolo. Gli ultimi dati Istat – risalenti al 2011 – parlano di 1,5 milioni di case costruite in Italia in dieci anni. Nello stesso periodo, dal 2001 al 2011, abbiamo avuto 400 mila famiglie sfrattate con la forza pubblica e 600 mila famiglie in graduatoria. Avevamo un fabbisogno di circa 1 milione di case di edilizia pubblica, abbiamo costruito 1,5 milioni di case al solo uso e consumo della speculazione immobiliare e della rendita senza aver migliorato in nulla la qualità del vivere e senza alcuna risposta ai problemi concreti delle persone. E senza uscire di un millimetro da quella che chiamano «emergenza casa». A noi non piace questa parola, perché non si tratta di emergenza ma di un problema strutturale.

Oggi non usate più il metodo dello sciopero dell’affitto?
Si usano altri strumenti, per esempio quelli che hanno caratterizzato la nostra battaglia, nel 2011, per contrastare le locazioni al nero che secondo dati dalle Banca d’Italia e della Cgia di Mestre sono 950 mila appartamenti, per un’evasione di 5 miliardi di euro e una mancata dichiarazione di redditi per 1,5 miliardi di Irpef. Nel 2011 aprimmo una grande vertenza per far applicare una legge che assicurava, a chi denunciava un affitto in nero, otto anni di contratto di locazione con un canone pari al 3% del valore catastale. Oggi siamo riusciti ad imporre, nella legge 431, l’applicazione del canone al minimo degli accordi locali come pena per chi affitta in nero; e a Roma gli accordi locali prevedono affitti da 2 o 3 euro al metro quadro. Insomma, contrastare il nero si può, l’inquilino può far valere i propri diritti.

Esattamente come quando l’Ui venne fondata, nel gennaio ’68, siamo in campagna elettorale. E come allora, la questione casa non è al centro dei programmi elettorali. È così?
Li stiamo analizzando , e li mettiamo ai voti sui social. Posso dire che M5S, Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega si meritano uno zero spaccato. Nei loro programmi, sulla casa non c’è nulla. Nomisma dice che ci sono 1,6 milioni di famiglie a rischio o in disagio abitativo per mancanza di intervento pubblico, e i maggiori partiti non ne tengono affatto conto. Alla lista Leu invece abbiamo dato un 6 perché fanno un’analisi discreta ma le risposte non sono all’altezza: la lista di Grasso punta infatti l’accento sull’acquisto di immobili da dare in locazione a chi è in graduatoria, mentre per noi la necessità oggi è quella di bloccare la speculazione edilizia e creare invece le condizioni per un piano regolatore dell’esistente. Abbiamo dato invece un 7 a Potere al popolo perché prevede un piano nazionale di case popolari e il recupero degli immobili come iniziativa prioritaria.

Quest’anno la legge di bilancio ha finanziato il fondo in favore degli inquilini insolventi. Cosa ne pensate? E cosa pensate della cedolare secca e dei voucher?
Il governo ha finanziato quel fondo con 10 milioni di euro per il 2019 e altrettanti per il 2020, una cifra ridicola. I voucher? Un paradosso: l’articolo 11 della legge 431/1998 ha dato fino ad ora qualcosa come 3,5 miliardi di contributi, soldi finiti nelle tasche dei proprietari e serviti solo a mantenere alti gli affitti, senza produrre alcun miglioramento sostanziale. Con quei soldi si potevano recuperare decine di migliaia di appartamenti. Siamo poi particolarmente contrari alla cedolare secca, intervento che prevede per il proprietario che affitta a canone agevolato a libero mercato il pagamento di un forfait sul reddito proveniente dalla locazione, reddito che però non va a sommarsi a quello personale. Il tutto senza alcuna riduzione dei canoni. Si badi bene che un documento del ministero dell’Economia e dell’Agenzia delle entrate di poche settimane fa dice che la cedolare secca costa agli italiani minori introiti fiscali per 2,2 miliardi di euro l’anno, e che di questi, 1,86 miliardi vanno a finire nelle tasche di un decimo di proprietari più ricchi.

Si sostiene che così si contrastano gli affitti in nero…
Ma non è vero. Lo stesso rapporto dice che il numero dei contratti di locazione è sostanzialmente rimasto invariato nel 2017. Quindi stiamo facendo un regalo ai proprietari più ricchi che fanno il massimo del profitto e gli concediamo pure il 90% del risparmio Irpef. Abbiamo in Italia pensionati e dipendenti che pagano minimo il 23% di tasse sul lavoro, mentre chi vive di rendita sugli immobili paga solo il 21%. Vi sembra giusto?