Hoc erat in votis. Orazio, nelle Satire, raccontava della speranza di diventare proprietario di una villetta con orto e boschetto; non sappiamo quanto ha dovuto attendere il poeta per realizzare il suo sogno, ma noi come italiani siamo stati finalmente accontentati almeno una volta, sul fronte delle crisi aziendali, anche se purtroppo dopo molti anni di ansiose attese. Davanti a tanti casi aperti da tempo, questa volta si è riusciti, sia pure con grande fatica, a vincere il maligno.

La bozza di accordo siglata ieri ci sembra abbastanza dignitosa e certamente migliorativa per alcuni aspetti rispetto a quella a suo tempo presentata come un arrogante prendere o lasciare dal brillante ministro Calenda.

Si aumenta ora il numero dei lavoratori assunti dalla Arcelor Mittal (10.700 contro i 10.000 precedenti), si offrono maggiori garanzie a quelli lasciati fuori, assicurando il loro reinserimento in caso di mancato esodo, esodo incentivato in maniera significativa, si anticipano i lavori di disinquinamento e si migliora in qualche modo la loro efficacia, mentre tutti i lavoratori saranno tutelati come da art. 18, ignorando il jobs act: evviva.

NON CI SEMBRA COMUNQUE ci sia molto da ringraziare l’apparente regista dell’accordo, il vicepriemer Di Maio, che, alla fine, non ha potuto che acconsentire alle forti pressioni che venivano dai lavoratori e dall’opinione pubblica. Peraltro, come ci ricordano i francesi, une fois n’est pas coutume.
Per altro verso, un accordo di tal fatta poteva essere tranquillamente firmato già molto tempo fa. Ma il nostro è un paese che non cessa di stupirci, mentre molti osservatori stranieri hanno smesso di tentare di capirci, impresa forse vana.

Non ci nascondiamo peraltro le riserve che ci sentiamo di manifestare di fronte all’intesa.

Intanto nessuno ha parlato dei lavoratori dell’indotto, che sono diverse migliaia e la cui sorte, almeno per una parte di essi, ci sembra resti incerta.
Appare positivo che l’accordo sia sottomesso ad un referendum tra i lavoratori, ma avremmo desiderato che ne fosse previsto un altro tra la popolazione di Taranto, che dovrà comunque digerire il fatto che, anche dopo i lavori programmati, si registreranno ancora, sia pure in misura molto minore, danni alla salute. Comunque, non occorre sottolineare che in caso di chiusura, non esisterebbe nessun credibile progetto alternativo che potrebbe essere portato avanti. Anche l’inserimento nell’accordo del riferimento ad una prossima legge speciale per Taranto appare come una pure esercitazione accademica.

BISOGNERÀ POI SEGUIRE con attenzione il rispetto dell’accordo per il reinserimento a pieno titolo di tutti i lavoratori. Ci saranno forse dei voltafaccia da parte dell’azienda e dei futuri governi, ci saranno delle nuove lotte da fare, ma ormai, come diceva B. Brecht, dopo le fatiche delle montagne ci aspettano quelle delle pianure.

La ripartenza dell’Ilva era una delle condizioni di base per fermare la lenta caduta dell’Italia industriale, ma ci sono altri dossier importanti ancora aperti in proposito.

È nota la penosa vicenda dell’Alitalia, che, stando almeno alle dichiarazioni ufficiali, dovrebbe ripartire tentando di nuovo l’esperimento del controllo tutto italiano e mantenendo l’integrità dell’azienda, questa volta con capitali pubblici; si tratterebbe di un’impresa destinata al fallimento. Ma attendiamo notizie fresche in proposito.

E taciamo poi delle penose vicende di Telecom Italia, ora in mano ad un fondo avvoltoio Usa.
Vogliamo invece ricordare molto brevemente due altre questioni stranamente assenti dai giornali. Ci riferiamo alla Magneti Marelli, asse essenziale nell’ipotesi di rilancio dell’auto italiana, segmento fondamentale della nostra economia, ma ora forse in procinto di essere ceduta di nuovo ad un fondo Usa, che già minaccia ristrutturazioni, mentre i media e il governo ignorano l’argomento, così come ignorano gli interrogativi che dovrebbero circondare la volontà di Fincantieri di mettersi a fare anche i ponti; ci troviamo ormai di fronte ad una bulimia di interventi su tutti i fronti possibili che ha preso il gruppo dirigente dell’azienda e che non promette nulla di buono per il futuro.