Se fosse giapponese, i suoi aforismi sull’esistenza, la politica, l’etica e il sogno di un mondo migliore si chiamerebbero «haiku». Ma Ai Wei Wei è cinese e il suo libretto di pillole di saggezza (e vita vissuta) si va quindi necessariamente a collocare fra le massime di Confucio e quelle delle celebri pagine rosse di Mao. In Weiweismi, pubblicato da Einaudi per la collana Stile Libero (a cura di Larry Warsh, traduzione di Alessandra Montrucchio, euro 10) la società cinese e il suo sistema antidemocratico che ne governa il bisogno di essere al passo col capitalismo e con le leggi più spietate del profitto viene messo a nudo. E circola tra le «sentenze morali» l’ossessione rappresentata da un’unica parola ripetuta in molte pagine: libertà. Di espressione, di fare ciò che piace, di lavorare non proprio allineati e telecomandati dall’alto, di essere creativi, anche ribelli e magari capricciosi.

Il j’accuse di Ai Wei Wei parte naturalmente da sé, dalla sua prigionia, dal suo essere un sorvegliato speciale privato di molti diritti, ma si allarga oltre le proprie mura domestiche e finisce così per descrivere una società agonizzante, che tenta il controllo ferreo («sui computer del governo esiste un solo tasto, cancella») e che fa acqua in ogni sua parte, perché con l’avvento della Rete e dei Social Network non si può oscurare, a tempo indeterminato, nessuna connessione tra internauti. «Invito a essere cittadini ossessionati, a non smettere mai di fare domande e di chiedere conto. È la sola possibilità che abbiamo oggi di vivere una vita sana e felice», dice l’architetto del Nido, lo Stadio di Pechino diventato il simbolo delle Olimpiadi. Che pure racconta gli orrori accadutigli, causa strenua opposizione alle politiche del suo paese: «Può succedere che a mezzanotte vengano in casa tua e ti portino via. Ti mettono un cappuccio nero in testa, ti trascinano in un luogo segreto e ti interrogano per ore, cercando di convincerti a non fare più quello che stai facendo».

Uomo mediatico per eccellenza, Ai Wei Wei è una vera spina nel fianco in Cina: abituato ad essere un one man show, l’artista ha utilizzato tutti i mezzi a disposizione per continuare a parlare e a farsi notare, compreso l’esilarante ballo collettivo su colonna sonora del tormentone coreano Gangnam Style e, ora, un disco con canzone «metal» che è una parodia della sua prigionia. Nella chiesa di sant’Antonin di Venezia, a côté degli eventi mondani della Biennale, ha offerto una delle sue mostre più impressionanti: in neri bunker/diorama ha rappresentato i momenti clou della sua vita da carcerato. Lo spettatore, sbirciando da «buchi» delle pareti e fessure, si trovava complice di quella triste condizione. Il set teatrale comprendeva modellini di se stesso, delle guardie e degli oggetti quotidiani della cella. Di giorni così, l’artista ne deve raccontare ottantuno, tanti sono stati quelli della sua detenzione nel 2011. L’acronimo S.A.C.R.E.D che dà il titolo all’installazione sta ad indicare le iniziali del percorso/Via Crucis: Suppers, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt. In Laguna, a presenziare, c’era solo la madre ottantenne, ad Ai Wei Wei è stato ritirato il passaporto e non può lasciare la Cina. Lui però «esce» comunque, a modo suo: alle Zitelle, presso Zuecca Project Space, lo fa con Straight: centocinquanta tonnellate di barre di acciaio che appartenevano alle strutture degli edifici scolastici crollati durante il terremoto di Sichuan, nel 2008. Vennero seppelliti dalle macerie circa cinquemila bambini, ma ufficialmente la Cina fornì pochissime notizie e mise a tacere la sofferenza degli abitanti e dei genitori che avevano perduto i loro figli. Con l’installazione Remembering – novemila zaini appartenuti agli studenti coinvolti nel sismal’artista aveva già ricordato quella tragedia. Ai Giardini, sempre per la Biennale, era invece ospite nel padiglione tedesco. Ha allestito una giungla con ottocento sgabelli riciclati, una impalcatura che impedisce di fatto il passaggio ai visitatori, ricreando uno spazio labirintico e ostruito nel suo libero accesso.

Insomma, più lo zittiscono, più la sua notorietà internazionale dilaga, abbattendo la recinzione che gli hanno cucito addosso. Quando Pechino fece distruggere il suo studio (era stato accusato di aver fatto costruire una struttura di duemila mq senza permessi), la festa d’addio che Ai Wei Wei organizzò fece il giro del mondo, trasformandosi in un vero e proprio Grande Fratello della dissidenza.

Prima, tanto per ricordare qualcuna delle sue apparizioni nel mondo dell’arte, con mille e uno lavoratori cinesi nel 2007 si era presentato in Germania e aveva messo in scena Fairytale per Documenta 12 Kassel: semplicemente, la libera partecipazione alla kermesse culturale di comuni cittadini e un film sulle loro testimonianze. Dormivano tutti nei laboratori di una ex fabbrica della Volkswagen, stipati otto per minicabine, in una dura prova di resistenza fisica e psicologica.

Alla Tate di Londra disseminò il pavimento con i Sunflower Seeds, cento milioni di semi di girasole in ceramica che si polverizzavano quando venivano calpestati dal pubblico. Il museo dovette correre ai ripari e vietare l’attraversamento della sala per non provocare allergie e problemi di salute con l’inalazione dei detriti.
Ora per chi volesse sapere tutto su Ai Wei Wei, è uscito anche un dvd più libro per Feltrinelli: Never Sorry della giornalista e regista Alison Klayman, premio speciale della giuria al Sundance Film Festival 2012. Il documentario inizia nel 2008, immortala la brutalità della polizia che non ha lesinato aggressioni fisiche (l’artista fu sottoposto a un intervento chirurgico d’urgenza) e riprende le installazioni più emozionanti di Ai Wei Wei, tessendo da vicino i fili questa sorta di solitaria «epopea di un oppositore».