Dunque, l’epilogo della crisi di governo è stato l’affidamento dell’incarico a Mario Draghi, un «tecnico», competente, grand commis dello Stato, per un governo «non politico» che guidi l’Italia fuori» dall’emergenza sanitaria, sociale ed economica». L’obiettivo «marzo 2023» è dunque in vista, per la scadenza naturale del parlamento. Ma quale altro epilogo poteva avere una legislatura nata sulle premesse che avevano portato al voto del marzo 2018?

Un parlamento eletto in cui la metà dei voti era andata a due liste che avevano fatto dell’opposizione ai partiti «mainstream» il loro vessillo, tra populismi sovranisti e anti-sistema. Un parlamento in cui più di un terzo dei senatori e dei deputati era stato selezionato con discutibili procedure «on-line» di più o meno volenterosi cittadini candidatisi per avere le preferenze di partenti e amici e possibilmente «followers», mentre negli altri partiti erano state le segreterie a dettare legge nella selezione.

Un partito – il Pd – al centro di una coalizione che dopo cinque anni arrivava al traguardo sfiatata, senza nulla di nuovo da offrire se non il «no al populismo e al sovranismo», dimenticando quanto aveva ormai perso il contatto con le masse e i loro bisogni. Una destra sulla cresta dell’onda sfruttando l’appeal anti-europeo e anti-immigrazione e un movimento 5 Stelle solo capace di gettare fango e buttare tutto alle ortiche, brandendo l’onestà – ancorché intrisa di incompetenza – contro «il sistema», salvo poi farcisi inglobare.

Neanche tre anni sono passati e la mancata selezione di una classe dirigente ha dato i suoi frutti, forse meno amari di quanto ci si sarebbe potuti attendere grazie alla pandemia e al fatto che la popolazione si è stretta intorno allo Stato in cerca di protezione e l’iniziativa dei singoli – tra i politici, i tecnici come tra i cittadini – ha supplito alle mancanze del sistema. Un governo affidato ad un «tecnico» non è che l’epilogo degno di un parlamento incapace, formato da un personale inadeguato. Non individualmente, si badi bene (che qui non si vogliono dare giudizi sulle persone) ma come corpo politico. Si può essere un buon ingegnere, un buon maestro, un buon avvocato, ma un pessimo legislatore, un pessimo ministro o sottosegretario.

Che prova ha dato di sé questo parlamento? Gli italiani rifletteranno? Perché non solo non ci sono più i partiti, ma non vi è più selezione di una classe dirigente all’altezza. A ben guardare, se il sistema politico italiano ha retto è
stato grazie al suo apparato burocratico-amministrativo centrale e periferico e all’iniziativa individuale dei singoli politici, anche se mai nella continuità.

Il Pd, stimolato dall’iniziativa corsara di Matteo Renzi dopo il papeete, aveva avuto uno scatto d’orgoglio, accettando la sfida di proporre un governo al partito di maggioranza, per lo più composto da individualità disomogenee ma ovviamente sensibili all’idea di prolungare la propria occupazione del potere (e dei seggi parlamentari). Ma ha fallito, subendo la propria mancanza di autorevolezza, prim’ancora del suo 18% di consensi parlamentari (ridotti poi all’11% per via della scissione renziana, che aveva ben nutrito dei suoi, a suo tempo, le candidature dem).

Non era scritto che il Pd dovesse fallire: davanti a sé aveva un’opportunità di imporre una direzione di marcia diversa, nei contenuti, tra l’altro favorito dalla pandemia e dalla necessità di una risposta all’altezza dei tempi storici. Non ne è stato capace, perché non c’è stata mai un’analisi delle ragioni della sconfitta, perché il partito è solo un apparato, perché quell’apparato non riceve nessuna formazione, selezione, capacità di elaborazione politica. Perché i suoi orizzonti sono solo elettorali, perché non ha più un disegno. (Anche la gestione della crisi di governo, non è stata da meno. I 5 Stelle la nuova Dc? La DC aveva ben altre capacità di mediazione. Il PD non ha saputo proporre nulla per uscirne).

Questa crisi di governo è il naturale epilogo per un parlamento che era stato eletto su quelle premesse, che per quasi tre anni è stato incapace di rispondere alle domande che avevano portato a quel voto, risollevando il Paese. Ma è anche il capolinea per il PD e quella compagine chiamata LeU, nonché gli altri bonsai di centro e di sinistra. Fine della corsa, ora si scende. Certo, sopravviveranno tutti, più frammentati di prima, ma forse il Paese avrà ora modo di riflettere che si tratta di rimettere al centro la politica, il progetto, la competenza e l’orizzonte.