Qualsiasi immagine, diceva Roland Barthes, può farsi «mito», può cioè lasciarsi trascrivere in parola, diventare linguaggio, dentro un universo – il nostro – infinitamente «significante». Ma ogni mitologia ha un fondamento propriamente storico, è il prodotto di un tempo determinato: non esistono insomma per Barthes – diversamente da ciò che pensava Baudelaire della Femme – «oggetti fatalmente suggestivi». Eppure, contravvenendo per un attimo a questa sacrosanta necessità di storicizzazione – che puntava a demistificare una volta per sempre i prodotti della cultura borghese – davanti a un’immagine-oggetto intrisa di eros, come quella di Marilyn Monroe, verrebbe da pensare che la «magnifica preda» dello sguardo e dei desideri occidentali portasse davvero in sé qualcosa di fatale, di immediatamente e per così dire naturalmente disponibile a lasciarsi tradurre in assoluto. A partire da quel finale di partita tragico, dal suo corpo nudo non più al centro della scena ma ritrovato ormai senza vita, in una camera da letto di Brentwood, a Los Angeles, il 5 agosto del 1962.
Questa stessa, continua opposizione fra mito e storia, o fra smitizzazione di Norma Jeane – vero nome della Monroe – e sua, al contrario, assunzione a simbolo, potrebbe essere una delle chiavi per sfogliare il libro allestito da Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo, Umana, troppo umana Poesie per Marilyn Monroe (Aragno, pp. 206, € 15,00), uscito con poco ritardo su quello che sarebbe stato il novantesimo compleanno della diva. Tale «omaggio» – che ha tutta l’intenzione di festeggiare Marilyn, e insieme di «risarcirla» della cinica mercificazione cui è stata sottoposta la sua figura, secondo l’avvertenza dei curatori – raccoglie più di un centinaio di liriche, composte su invito per l’occasione. E riunite all’insegna di una certa libertà. Si incontrano, qui dentro, vere e proprie griffes della poesia contemporanea, a fianco di poeti esordienti o quasi, o magari di nomi a oggi più marginali. L’impressione è che non si debba dunque guardare a questo libro come a una costruita antologia di «belle pagine», o di soli «capolavori», ma piuttosto come a un gesto sinceramente affettuoso. E insieme – quanto alla destinataria – come a un’ulteriore possibilità di verificare come la descriva il nostro immaginario contemporaneo. Un immaginario decisamente segnato, per esempio, da Pasolini, la cui celebre poesia per Marilyn inaugura queste pagine, insieme a quella di Dario Bellezza tolta al suo Proclama sul fascino.
Colpiscono, fra il resto, i ritorni e le citazioni della poesia-madre pasoliniana, come per quell’aggettivo attribuito a Marilyn – «sorellina» – che torna come un refrain in più d’uno di queste liriche: come a dire che non è solo l’iconografia di Marilyn ad avere qui una sua persistenza, continuamente riecheggiata (in un volume che fa in effetti una scelta giustamente aniconica: nemmeno una fotografia di lei, puntando tutto, invece, sulla capacità compensatoria e sulla discrezione della poesia). Ed ecco che un Magrelli può infatti dedicare «a PPP inventore di MM» il proprio testo-bricolage, «Quattro distici e un kit di rime da assemblare», in un’ottica qui esplicitamente «decostruttiva», e in cui per un mito-pop si possono giocosamente orecchiare non solo Pasolini o Bellezza – «Marilina Marilina» – ma anche Lucio Battisti («Cameriera in qualche bar / dolorosamente Star»). Non che manchino, fra queste pagine, le epifanie dell’angelo, dell’emblema-Marilyn. Ma sorprende, d’altra parte, come sia lo sguardo femminile che quello maschile riescano, più spesso, a togliere Marilyn dalla scontata posizione di oggetto del desiderio, restituendola a una sua più problematica umanità, appunto: è il caso di Maria Grazia Calandrone, che insiste duramente sulla concretezza del corpo morente di Norma-Marilyn e poi del suo cadavere, molto più che sulla Monroe quale stella di bellezza. O di Alessandro Fo, che racconta (anche) della Monroe attraverso una prospettiva «decentrata», evocando il destino analogo – fino al suicidio – della sua sosia, Kay Kent: un omaggio non di rado sul rovescio, dunque, nel quale è la tenerezza della parola, molto più del luccichio dell’icona, a saper difendere la fragilità di Marilyn.