«Una volta il bidello interruppe il professore a metà lezione: fatto eccezionale e anzi unico. Porse un telegramma. Paci, preoccupato, disse: “Scusate” e lo aprì. Uno sguardo e una gran risata. “È del ministro”, ci confidò sollevando le spalle e guardandoci di sottecchi, mente lo riponeva nella borsa. Era la convocazione per un concorso di cui Paci era commissario. Tutta l’aula 111 rise con lui. La lezione riprese come se nulla fosse avvenuto. Io ricordo di aver amato paci in quel momento come forse mai più. Sentivo o immaginavo di avere, davanti agli occhi, l’incarnazione perfetta di che cosa è un filosofo e di che cosa è l’università, questo luogo di libertà e di indipendenza assolute, un esempio eloquente di quali sono le cose serie e importanti rispetto al potere, alle istituzioni, al mondo esterno, rispetto al diavolo e al buon dio». Tante sono state le biografie dei filosofi, ed ognuna ha rivelato l’impossibilità di restituire «la complessità indescrivibile e incircoscrivibile della vita reale». Specie se, come in questo caso (Carlo Sini, Enzo Paci, Feltrinelli, pp. 143, 14 euro), subentra imperioso anche il ricordo personale, l’ammirazione, la riconoscenza e l’affetto per un «maestro» che ha plasmato come pochi altri il nostro vissuto. Tanto quello interiore quanto quello esteriore. Carlo Sini confessa subito il suo punto di vista inevitabilmente parziale e soggettivo, quasi imbarazzato di fronte all’incommensurabilità di ciò che si è proposto di raccontare: una vita umana. Quella del proprio maestro, Enzo Paci, tra le figure più eminenti della filosofia del XX secolo. Di fronte a un compito così immane, in cui le questioni filosofiche si intrecciano con quelle affettive per confondere sapientemente l’animo di chi scrive, a Sini è tornato in mente il suo amato Peirce, che affermava che il significato di una vita (anche la propria) è affidato all’interpretazione degli altri, cioè «alla fatale e inevitabile parzialità e ingiustizia del loro ricordo, alla limitazione strutturale di un punto di vista sempre esclusivamente soggettivo».

L’amato e temuto maestro

paci

Paradossalmente, su questo piano, può risultare più oggettiva la narrativa della finzione, il personaggio di un romanzo più di una persona in carne ed ossa. In fondo il primo nasce dall’immaginazione onnipotente dell’autore, mentre il secondo porta dentro di sé un mondo e con un intero mondo è destinato e entrare in una relazione straordinariamente complessa e imponderabile: «Ogni vita che finisce porta con sé un mondo, personale e irripetibile, con i suoi personaggi, le sue verità, le sue emozioni e i suoi ricordi», annota Sini. Quello dell’autore nei confronti dell’amato (e temuto) maestro è lo stesso pudore che mostrava Platone nel raccontare gli aspetti più personali di Socrate. Lasciando per esempio ad Alcibiade, nel Convito, il compito di descrivere Socrate come insensibile al freddo e alle fatiche, coraggioso, umile e padrone di sé anche quando l’esercito era allo sbando. Non è dato sapere con certezza se Platone esagerasse nel magnificare la figura dell’amato maestro. Certamente non è il caso di Sini, che con penna amorevole ma decisa non omette il carattere freddo e distante, a volte brusco di Enzo Paci (almeno con i propri allievi). Sini conobbe Paci nel 1957, quando questi iniziò le lezioni di filosofia teoretica alla statale di Milano. Questa diventa l’occasione per ricordare un mondo universitario dalla duplice facciata. Molto diverso da quello di oggi, per gli studenti, ai quali era concesso un rapporto più diretto e informato con i docenti. Identico a quello odierno per quanto riguarda questi ultimi e i loro ricercatori, in continua «aspirazione ossessiva» ad ottenere l’agognata vittoria di un concorso a cattedra. Naturalmente in seguito a guerre epocali ed equilibri di potere sapientemente gestiti dai «baroni», in un contesto di ipertrofia gerarchizzante e umiliazione del merito tipici del nostro paese e che l’autore, divenuto barone a sua volta, si guarda bene dal denunciare fra le tristi peculiarità del sistema italico. Il libro è scritto con un registro al tempo stesso rimembrante e cronachistico, semmai col limite di fornire, spesso e volentieri, l’impressione che l’autore parli più di se stesso che del suo maestro che dà il titolo all’opera. Proprio l’inusuale, e tutto sommato felice, fusione di questi due registri consente di ripercorrere in maniera originale e chiara alcune delle più significative vicende culturali del Novecento italiano. Come per esempio la nascita di «aut-aut», nel 1951, con l’idea grandiosa (e oggi sonoramente sconfitta, scrive Sini) di riscoprire la filosofia quale scientia scientiarum, ossia disciplina aperta al dialogo e allo scambio con gli ambiti più vari e fertili.

Un disastro annunciato

O anche la grande stagione della fenomenologia, di cui Paci divenne uno dei rappresentanti più significativi nel mondo, quando si trattava di integrare Marx con Husserl, ma anche, in maniera più accessoria, di combattere la già nascente epopea della filosofia come «prodotto» modaiolo e buono per alimentare le polemiche sui giornali. Fenomeno, sia detto per inciso, che oggi ha finito per trionfare, «schizofrenizzando» la filosofia tra chi la studia nelle torri eburnee e inaccessibili di un’università chiusa in se stessa, e chi la vende (o meglio svende) su giornali e siti sostanzialmente ad uso proprio. Rimane qualche spazio per una gustosa polemica contro i filosofi recensori di libri (pronti a stroncare in seguito alla mancata comparsa del proprio nome negli indici), nonché per un giudizio benevolo sul Sessantotto («ultima espressione culturale nata e cresciuta entro l’università»), la cui degenerazione e sconfitta ha prodotto il disastro della «mezza cultura» sotto gli occhi di tutti. Le ultime pagine lasciano spazio al registro struggente degli ultimi giorni di vita di Paci, che Sini ricorda con passione analitica proponendosi di tornare un’ultima volta a visitare i luoghi natali del maestro. Là dove è iniziato tutto l’inenarrabile narrato nel libro.