«È stato un mio grande amico, eravamo compagni di scuola alle elementari. Io ero grosso, stendevo i ragazzi, lui era grassottello e ci si sedeva sopra per neutralizzarli durante le lotte in cortile. In terza elementare mi regalò un pupazzo di Babbo Natale, mi vedeva povero»: Enzo Gragnaniello ricorda l’amico Pino Daniele e i loro percorsi differenti sulla scena partenopea. «Io suonavo con il gruppo Banchi Nuovi, eravamo una formazione politica e facevamo canzoni di lotta. Lui già incideva dischi in un circuito ufficiale. I brani di Pino prodotti a Napoli però, come Donna Cuncetta o Chi tene ‘o mare del 1979, avevano un contenuto sociale molte forte impastato di poesia». La città in cui muovono i primi passi come musicisti è ancora segnata dalla presenza delle truppe statunitensi, che avevano occupato Napoli dopo la rivolta spontanea contro i tedeschi del ’43: «Frequentavamo i night americani come il River in via Marina o il Cactus dalle parti del Ponte di Tappia. Nei locali e dai juke box si diffondeva la musica soul e rhythm and blues, Elvis Presley. A lui è rimasto addosso il blues, io ho preferito girare lo sguardo verso il Mediterraneo. Era un momento storico in cui la scena partenopea era molto viva ma ognuno seguiva il suo percorso personale, salvo poi incrociare i rispettivi cammini alle feste dell’Unità».

Tony Cercola ha cominciato la sua carriera di percussionista con Pino Daniele trentotto anni fa, partendo dai tamburi e dalle sue «buattelle», strumenti che ricavava da scatole e barattoli: «Pino viveva con le zie all’epoca, il nostro luogo di ritrovo era piazza Carità. Fu Claudio Poggi, il produttore dell’album Terra mia, a farci incontrare. Una session sola e Pino mi cacciò via. Venivo dalla provincia, non conoscevo la scena napoletana e i suoi codici, ero solo un concentrato di energia e poco altro. Fu ancora Claudio a insistere perché mi desse un’altra occasione e così abbiamo cominciato il nostro cammino insieme». Le prove si tenevano in un garage di via Martucci, il Teatro Esse, nell’arco di pochi metri c’erano il Play Studio e il Tin, i due locali dove passavano a suonare i maggiori esponenti della scena locale e nazionale. «Andavi la sera e ti capitava di ascoltare Francesco De Gregori oppure Franco Battiato con la sua tastiera, Antonello Venditti, gli Osanna. La musica straniera ci arrivava attraverso la radio. Era l’epoca di Per voi giovani su Radio Rai, dove Raffaele Cascone dalla consolle lanciava il Neapolitan Power. Ma ascoltavamo anche Radio Montecarlo e Radio Luxemburg».

Nel 1977 Cercola accompagna alle percussioni Pino Daniele nel programma tv della Rai Auditorio A, l’anno dopo collaborano alla colonna sonora del film La mazzetta di Sergio Corbucci, nel 1980 incide la struggente Appucundria, inserita nell’album Nero a metà: «Dopo 35 anni sono tornato a suonarla nel ciclo di live che Pino volle fare con le formazioni con cui aveva cominciato. È stato come se non ci fossimo mai lasciati. Ci legavano gli stessi ricordi, la tv in bianco e nero, gli stessi libri. Negli ultimi tre anni siamo andati in giro per concerti con l’entusiasmo degli esordi, solo che adesso a tavola prendevamo in giro i rispettivi acciacchi. Spesso sul palco faceva salire i musicisti della scena contemporanea, quelli che gli piacevano, come Elisa, Emma, Francesco Renga oppure Rocco Hunt e Clementino, sono bravi ragazzi diceva. A tutti noi ha insegnato il dono del balance».

Le prime esperienze come bassista di Bobby Solo e poi dei Napoli Centrale di James Senese, dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 Pino Daniele è stato il sound della città venato di blues: «Era un bluesman intelligente – racconta ancora Cercola -, ha impastato una cultura millenaria con le sonorità nere, ha rafforzato il nostro slang con il blues. Aveva una timbrica assolutamente personale, non da cantate ma da cantore. Ha rispettato tutti i canoni della canzone napoletana rendendoli commerciabili ma non commerciali. Insomma quello che Renato Carosone ha fatto col jazz Pino l’ha fatto col blues». Il successo apre le porte delle collaborazioni internazionali con artisti come Chick Corea, Wayne Shorter, Gato Barbieri, Pat Metheny: «I musicisti stranieri lo vedevano in modo differente da noi – conclude -, erano affascinati proprio dalla sua capacità di tenere dentro le radici partenopee. Ricordiamoci che, in quegli anni, Metheny ascoltava i nastri della Nuova Compagnia di Canto Popolare e a Miles Davis piaceva la musica di Nino D’Angelo».