Quanta aneddotica si è vista, sentita, letta in questi giorni, tra giornali, telefoni, internet e televisioni, su Enzo Mari e Lea Vergine. Di quante Nazionali, di quanti Toscani, di quante freddure e battute, di quante pastiere e taralli e polpette, di quanti nipotini si è parlato… Nella desolazione del crematorio a Lambrate, tra le bare coperte di rose bianche e un manipolo di superstiti, mi è capitato di richiamare – a proposito della scomparsa, una a ruota dell’altro, dei nostri due amici – il mito di Filemone e Bauci: i due vecchi contadini che chiedono agli dei, Giove e Mercurio, ospiti a casa loro, sotto mentite spoglie, mentre il mondo è devastato da un cataclisma, la grazia di morire insieme. Avevo solo contraffatto qualche esametro per accentuare in Filemone l’aspetto di costruttore di mobili in legno, per ridurre in Bauci la fragilità, spesso querula, della vecchiaia. Una manciata di versi di Ovidio, tanto cari al Goethe del Faust II, sembrava il modo per scongiurare, almeno lì, tra quell’architettura brutalista, dove il cemento armato a vista cedeva il posto a sprazzi di lilla, il diluvio della retorica.
Ma non serviva a niente: né a lenire il dispiacere, né a fare tacere il desiderio altrui, più che legittimo, di testimonianza. E così non sono mancati nemmeno gli applausi di rito, persino le battute e i sorrisetti. Bastava distrarsi un attimo ed Enzo e la Lea rischiavano di diventare Vianello e la Mondaini. Non si potevano invece richiamare Fellini e la Masina. Lì tra quei vecchi, lì tra noi vecchi, solo un’eco smorzata, quasi impercettibile, dei «Compagno Franceschi, sarai vendicato», dei «Nessuno più al mondo dev’essere sfruttato» et similia. Sul fondo, dietro a Enzo, oltre le falci e i martelli, al di là delle oche e delle putrelle, le campagne piatte di Cerano e le catastrofi innografiche del suo maggiore concittadino, il pittore Giovanni Battista Crespi, uno dei «pestanti» di Testori, costituivano la chiave, mi pare non ancora utilizzata, per arrivare al fondo di un’ispirazione, qualitativamente così elevata e in grado di dare vita a oggetti senza tempo.
Con le sirene che hanno ripreso a fischiare e senza avere visto ancora la grande mostra di Mari alla Triennale, viene però da interrogarsi, per adesso, sul posto e il ruolo di Lea Vergine, provando per una volta a lasciare da parte la mitologia che lei stessa aveva elaborato, a partire dalla scelta, così azzeccata, del proprio cognome. Quasi un nome d’arte, una volta abbandonato esclusivamente alla burocrazia il suo anagrafico Buoncristiano. E mi verranno da dire cose che forse a lei, da viva, non sarei mai stato capace di esprimere: davanti all’implacabile Castellani bianco, che fungeva da barometro del mercato dell’arte, le sarebbe scattata la battuta, si sarebbe alzata, finché ha potuto, per prendere le sigarette, avrebbe chiamato Matilde, avrebbe risposto a Rosellina al telefono, si sarebbe ricordata che Meta era di là, che Francesca non aveva ancora mangiato, o avrebbe almeno acceso l’aria condizionata. Infatti anche quella con Lea Vergine fa parte delle mie amicizie nate a partire dalla comune avversione per il caldo e per le sue conseguenze sul corpo e sulla psiche: «bave di fuoco in piazza Sant’Ambrogio», «notti di caldo e afa», «peggio che nel 2003»… e la generosità, anche stavolta, di Stefano Boeri nel fornire gli impianti adatti a fronteggiare quei cataclismi, anno dopo anno, sempre più insopportabili.
Cosa c’era dietro il disagio che la Lea avvertiva per il mondo e, in particolare, per quello dell’arte? Qual era il segreto del suo dolore, lasciando per un attimo perdere i traumi dell’infanzia e senza i conforti della fede? La persona che ho conosciuto io rappresentava, con evidenza, il dramma di essere passata da autrice a testimone: un passaggio di status, indolore per nessuno e che non voleva accettare. Non si sentiva ridotta a un soggetto delle inevitabili interviste in fondo alle tesi di laurea. C’era sempre un prima, mitico, in cui le cose si potevano fare o, almeno, si erano potute fare: i sindaci intelligenti, gli assessori comprensivi, gli editori disposti a rischiare, i compensi lauti… Quel prima era – per lei, come per tutti – la giovinezza, quando il radar generazionale funziona a pieno regime, senza perdere colpi, arrivando naturalmente ai bersagli giusti: ma di questo non si voleva o non si poteva rendere conto e preferiva chiamarlo in un altro modo.
Certo c’era e c’è intorno un imbarbarimento del costume: e non a caso l’ultimo spostamento fisico che la Lea ha fatto è stato un viaggio a Roma, in treno, poco prima dello scoppio del Covid, per andare a trovare, sapendo che non ci sarebbe stata un’altra volta, Rossana Rossanda. Cioè una persona che della dignità morale, della lucidità politica si era fatta una divisa e che – lo si dimentica spesso – aveva cominciato la sua esplorazione del Novecento facendo la storica dell’arte, nel brumoso Castello di Milano, tra l’Argo del Bramantino e le ricostruzioni in stile di Luca Beltrami. Quando la Lea era ancora sotto il sole di Napoli, Rossana si crucciava già che il mondo non andasse come voleva lei. Con quei punti di riferimento, oltre che con la propria bussola interiore, era inevitabile l’avversione, se non lo scontro, con le personalità che del mondo artistico erano diventate, negli ultimi anni, i testimoni riconosciuti per il pubblico di massa. Per quelli niente sconti, nessuna pietà, tanto disprezzo, fino alle aule dei tribunali. Il fastidio nella Lea era etico, prima ancora che estetico.
Ho detto di Rossana, ma avrei potuto rammentare altri nomi di compagni e compagne in una storia, fino a un certo punto, tanto densa di occasioni; omettere non si può però, e non solo per il suo ruolo di messaggero d’amore, il piemontese Giulio Carlo Argan. Da quell’intelligenza acuminata, che non rifiutava i giochi di parole, anzi ne faceva una sorta di colonna sonora per il suo fortunatissimo tracciato nella storia dell’arte, discende il modo di scrivere della Lea, sempre alla ricerca della formula caratterizzante, non del corpo a corpo con la singola opera d’arte. Non gli esercizi, ma le chiavi: meglio se passepartout. D’altronde anche i Pane e gli Zevi, se non i Causa, che punteggiano il primo tratto della sua storia orientano la bussola verso Palazzo Filomarino, il cui inquilino principale, anche se non era più «il liberatore delle nostre menti giovanili», era pur sempre «il maestro di noi tutti», Gramsci compreso. Forse l’espressione è troppo ellittica, formulata così, ma credo che la Lea da quell’imprinting crociano, pur passato attraverso mille salse e mille esperienze e mille letture, non sia mai uscita.
E anche da questo veniva la sua difficoltà nel comprendere una storia dell’arte costruita diversamente da quella che aveva imparato a fare, tra Napoli e Roma, dove, in mezzo a maschi innamorati, brillava Palma Bucarelli, a mezza strada tra la mimesi delle dive degli anni Trenta e l’infatuazione (come non capirla?) per l’arte nuova, e i corpi giovani, di Pascali e di Schifano. Con quegli strumenti lì, pur affilati al massimo, diventava progressivamente più difficile lavorare, mentre Haskell, la Barocchi, Gianni Romano… stavano indicando strade diverse per la disciplina. E c’era sempre da scalare – ostica per lei, cruciale per me – la montagna, persino teorica, di Carla Lonzi, che poteva dire a sé stessa e al mondo di non avere sbagliato nessuna scelta in campo artistico (altro che «Genova conta, Napoli canta»). La Lea non si ritrovava su quelle strade, su quella storicizzazione ad oltranza, che consapevolmente scansava il mito della scrittura espressiva, a cui lei invece non voleva rinunciare. E credo che su quello sia scattata la scintilla della sua comprensione per il mio lavoro.
Con questo quadro di riferimento si comprende che solo i temi, non i metodi (inimitabili, a rischio della caricatura), potevano essere garanzie di successo. E allora, richiamandoli alla rinfusa, il corpo o i rifiuti o le donne o le ombre. Lasciando perdere il «mitico» impiegato di prammatica per queste esposizioni, andranno di volta in volta, se si vuole comprenderle sul serio, calate nei loro tempi: e quindi, per fare un esempio soltanto, L’altra metà dell’avanguardia nascerà, nel 1980, a partire da Women Artists: 1550-1950 di Ann Sutherland Harris e Linda Nochlin, a Los Angeles nel 1976, ma non ne sarà una tempestiva imitazione italiana, quanto piuttosto uno sforzo di autoanalisi, a un passo da via Dogana e alla luce del proprio rapporto con Enzo.
E come non considerare un atto d’amore per lui la mostra dell’arte cinetica, a Milano nel 1983, così clamorosamente inattuale, quando le bandiere della pittura pittura sventolavano, frettolosamente rimesse a nuovo, sulle rive del Reno, del Tevere e persino sui Navigli? Cosa c’era, stando alla storia più vicina, dietro alla Bloomsbury rievocata, nel 2012, ai piedi delle Alpi, nel museo di Gabriella Belli, prima, e di Cristiana Collu, poi? In mezzo a quelle sale colorate, si aveva l’impressione di essere a mezza strada tra l’Oriente di Salgari e l’America di Pavese, con Enzo come Ezra Pound.