La passione per il punk l’ha sfogata nei due album d’esordio con i Decibel, rispettivamente nel 1977 e nel 1980. Poi arriva Sanremo dove Contessa fa scoprire nuance d’autore alla musica dell’artista milanese, classe 1957. Di anni ne sono passati 42, e quel ragazzo dai riccioli biondi e gli occhiali sormontati da una montatura bianca è nel frattempo diventato fra gli autori più stimati della musica italiana. Enrico Ruggeri rompe il silenzio che durava dal 2019 – enormità per chi come lui era abituato a sfornare ogni dodici mesi un disco. Il 18 marzo pubblica La rivoluzione (Anyway Music), alla vigilia del tour teatrale che parte il 2 aprile: undici pezzi – come spiega lui: «Composti, modificati, a volte cestinati e poi rifatti». Nessuna concessione al pop mainstream, suoni spesso grezzi e rigorosamente dal vivo: «La svolta – spiega – sono stati i due dischi del ritorno insieme ai Decibel – Fulvio (Muzio) e Silvio (Capeccia) non conoscevano i vantaggi della modernità. Silvio mi diceva ’qui metterei un hammond’ invece di dire ’andiamo a cercare un plug in con un suono X’. È stata una grande lezione e mi ha portato ad asciugare arrangiamenti e esecuzioni».

L’ALBUM si apre con Magna Charta, e più che alla carta reale dei diritti redatta dall’arcivescovo di Canterbury nel 1215, vuole essere – spiega l’autore: «Una sorta di bilancio e allo stesso tempo una dichiarazione programmatica che prepara il brano che intitola il disco», racconto del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. «Lo sento come un disco autobiografico – prosegue l’artista milanese, l’ho costruito con calma durante la pandemia in una lavorazione durata due anni. Lo definirei un concept sui rapporti umani, di generazioni e di sogni adolescenziali, della vita che si scontra con quello che pensavamo la vita avrebbe dovuto essere». Canzoni dall’approccio rock – alcune scritte insieme a Massimo Bigi- vigoroso – La fine del mondo, Non sparate sul cantante, anche introspettivo – Parte di me, Che ne sarà di noi, Ruggeri ha scritto alcune dei testi più belli del pop anni 80 affidato a voci come Fiorella Mannoia (Quello che le donne non dicono) o Loredana Bertè (Il mare d’inverno).

«LA COPERTINA ritrae me e i miei compagni di classe nell’anno scolastico 1973-74 – quella è la generazione di sessantenni che sono passati da Carosello alla strage di piazza Fontana e poi le Brigate Rosse, l’eroina, l’Aids. E questo, nel bene e nel male più male visti i fatti, è la generazione che gestisce il mondo». A pagare lo scotto della pandemia e ora della guerra incombente sono le nuove generazioni: «Due anni terribili per loro, anche perché la scuola in dad ha significato non socializzare. Ma gli adolescenti di oggi vivono una realtà completamente diversa da noi, intanto perché oggi l’individualità è diventata fondamentale: i loro idoli sono influencer, calciatori. Persone che hanno cercato il riscatto sociale o lo hanno ottenuto pro domo loro. Anche John Lennon è diventato miliardario, però se lo ascolti ti accorgi che c’era un’urgenza propositiva e di intervenire sui fatti del mondo per farlo migliore».