Un tour mondiale, iniziato ad aprile, e l’uscita a inizio settembre del nuovo album per la Ecm: Roma. Il trombettista Enrico Rava, 80 anni appena compiuti, attivo dagli anni ’60, continua ad essere un musicista di riferimento per il jazz nazionale ed internazionale, spinto da una creatività inesausta. Lo attendono tra ottobre e novembre recital in Italia, Germania, Stati uniti per i cinquant’anni dell’etichetta Ecm, e poi Argentina, Belgio e ancora Italia, dove il 10 dicembre si concluderà il lungo tour, a Roma. Partiamo nella conversazione con il trombettista-compositore proprio dal vibrante album intitolato alla capitale, realizzato insieme a partner formidabili come Joe Lovano, Giovanni Guidi, Dezron Douglas e Gerald Cleaver.

In «Roma» viene proposto un concerto live invece che registrazioni in studio. Quali i motivi di questa felice scelta e gli elementi di comunione con Lovano, con cui aveva collaborato vent’anni fa?

In realtà l’idea era di andare in studio. La registrazione di Roma (al Parco della Musica il 10 novembre 2018, ndr) l’avevo mandata al produttore Manfred Eicher che voleva sentire il suono del gruppo per decidere in che studio incidere. Dopo i primi dieci minuti di ascolto mi ha inviato una mail scrivendomi «very good indeed» e proponendo di far uscire su disco il concerto. Idea che ho colto al volo, anche perché avevo un ricordo bellissimo della serata, sia della musica che del rapporto che si era creato con il pubblico. Punti di contatto tra me e Lovano ce ne sono molti, il principale è che siamo entrambi legati alla tradizione che però vediamo non come un qualcosa di statico a cui attenersi rigorosamente, ma come un punto di partenza per un lancio nel vuoto, con o senza paracadute.

Che rapporto ha con la città di Roma dove ha lavorato all’inizio della sua carriera incontrando Gato Barbieri, Steve Lacy e Franco D’Andrea?

É parte della mia storia e ho con lei un rapporto, come per tutte le cose, di odio e amore. L’ho vissuta in parecchi periodi storici diversissimi tra loro. Nel ’64-‘65 la Roma della Dolce Vita: una città dove sembrava di essere in festa tutti i giorni. Ne ero innamorato, suonavo con Gato Barbieri tutte le sere in un club di Trastevere. Poi il ‘68, con piazza Santa Maria in Trastevere popolata da giovani rigorosamente in eskimo, con la minaccia perenne dei bonghetti e degli Inti Illimani. Un periodo difficile ma molto stimolante: Steve Lacy, i giorni del Free Jazz, degli esperimenti, dell’amicizia; continuavo a esserne innamorato. Quando però sono ritornato a viverci per un anno nel ‘90, la città era molto cambiata, non la sentivo più vicina come prima. C’era un senso di esasperazione o di disperazione e me ne sono andato molto volentieri. Da allora l’ho frequentata sporadicamente, solo il tempo di un concerto o poco più. Ma l’amore è sempre lì, seminascosto, e aspetta solo di essere stimolato.

Quale la sua relazione con altre metropoli dove, peraltro, suonerà a novembre: New York e Buenos Aires?

Buenos Aires: su misura per me, con quella sua musica meravigliosa, i suoi scrittori e la sua gente. Città a volte incomprensibile ma anche irresistibile. In certi momenti sembra di essere a Parigi, poi invece no, siamo a Genova, poi Napoli e poi ancora Londra. Ma poi guardi meglio: questa è Buenos Aires e assomiglia solo a se stessa. New York: il centro della musica che amo. Ricordo con grande piacere ogni giorno di quei dieci anni che ho vissuto a N.Y. Gli anni settanta, anni durissimi, c’erano la guerra in Vietnam, i Black Panthers, i Weathermen. La città era molto, molto violenta, niente a che vedere con quella che è oggi. Però era fantastica. I grandi, quelli che hanno inventato il jazz, erano ancora in pista e si trattava solo di scegliere chi andare ad ascoltare. I miei coetanei, quelli che qualche anno dopo sono diventati i Grandi Maestri, erano i miei «colleghi» con cui suonavo abitualmente: Steve Lacy, Roswell Rudd, Cecil Taylor, Joe Henderson, Paul Motian…

La sua musica sfida – in senso positivo e prospettico – il tempo ed ha, alla base, un’idea di espressione sonora «partecipata» e collettiva.

La mia musica la vedo come qualcosa in continuo divenire, una specie di workshop, in cui la cosa più importante è ascoltarsi e capirsi. Intuire di cosa hanno bisogno gli altri e sapere che gli altri daranno quello di cui si ha bisogno: una democrazia perfetta.

Lei ha, in passato, lavorato su testi di Andrea Camilleri, collaborando con il grande scrittore per diverso tempo Come lo ricorda?

Ho un ricordo bellissimo di Camilleri. Mi ha accolto con grande calore a casa sua, in via Asiago, dove ho scoperto il suo grande amore per il jazz. Uno scrittore che ho apprezzato moltissimo e poi era una persona aperta, gentile, disponibile.

Da sempre lei costruisce i suoi gruppi attentamente, cercando un dialogo intergenerazionale. Da autodidatta quale è, cosa insegna soprattutto ai suoi allievi ed ai suoi sidemen?

Io nei miei «seminari» in realtà non insegno niente, cerco di comunicare la passione per la musica che si sta facendo. Cerco di aiutare ad «ascoltare» e a dare sempre tutto. A suonare come se fosse l’ultima volta.