La cultura italiana, che volentieri trascura chi la fa crescere senza clamore, deve molto a Enrico Ganni e al lavoro che ha portato avanti per quarant’anni, prima come docente di traduzione dal tedesco alla Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori, come curatore di tante opere fondamentali e in parte sconosciute della letteratura tedesca e infine come editor della narrativa straniera all’Einaudi.

Gli deve molto perché senza la sua dedizione discreta e assidua non avremmo oggi l’edizione completa delle opere di Walter Benjamin concepita e poi lasciata da Giorgio Agamben che è, a oggi, la migliore edizione degli scritti completi del filosofo esistente fuori dalla Germania: solo la pazienza, il sapere e la passione di Ganni permisero di portare a compimento un’impresa che pareva impossibile per i tanti intralci che l’avevano ostacolata.

NON AVREMMO neppure le sue traduzioni, sempre perfette, dei più grandi classici della letteratura e della cultura tedesca: da Kafka a Freud, da Musil a Stefan Zweig (magnifica la sua traduzione della Novella degli scacchi), da Brecht a Josef Roth. Ganni aveva per vocazione e scienza l’idea, mille volte ripetuta agli studenti che affollavano sempre le sue lezioni, che un traduttore, soprattutto quando si confronta con i classici di una cultura, non deve essere semplicemente un tecnico della lingua, ma un uomo di cultura universale, capace di riversare nella lingua le conseguenze di una volontà di conoscenza inesauribile. Amava citare, come esempio, le opere di Adorno: non era possibile, diceva, tradurre Adorno senza sapere non solo di filosofia, sociologia e letteratura, ma anche e forse soprattutto di musica. Il suo punto di riferimento costante era stato, però, l’universalismo di Goethe, l’autore a cui forse più e meglio ha dedicato le sue energie e la sua passione intellettuale.

CRESCIUTO anche lui a Francoforte, dove aveva frequentato le scuole inferiori e superiori, era entrato in contatto fin da bambino con lo spirito della cultura goethiana e, tornato in Italia, dopo essersi laureato con Roberto Fertonani, aveva portato quello spirito dentro il suo lavoro, prima come editor delle traduzioni alla Mondadori, poi nei lunghi anni trascorsi all’Einaudi. Non per nulla sono le traduzioni da Goethe l’esito più grande della sua acribia. Aveva collaborato alla grande edizione completa delle poesie curata dal suo maestro, Fertonani, per i Meridiani, ma solo due anni fa aveva portato a termine l’impresa di ritradurre Poesia e verità, la monumentale autobiografia della gioventù che meglio di qualsiasi altro testo restituisce l’idea dell’origine dell’universalismo goethiano.

Avrebbe voluto tradurre nuovamente il Werther e di sicuro, se il destino non si fosse messo di mezzo, sarebbe stata finalmente, la sua, la traduzione che quel capolavoro merita e non ha ancora avuto.

CONFESSO che Enrico Ganni mi intimidiva anche se, forse, faceva solo a me questo effetto. La sua discrezione a volte ironica mi pareva venire da una superiore saggezza, quella che in tedesco si chiama, con un bel termine, Souveranität. Anche questo era un tratto goethiano e anche questo tratto se n’è andato via con lui.

Non sono state molte, in questo paese, le persone capaci di restituire un’idea di cosa sia stata e di cosa significhi ancora oggi la classicità tedesca: il senso della misura e della civiltà nei rapporti umani, l’ironia come espressione critica del pensiero, il rifiuto dell’eccesso come principio morale, la ricerca inesauribile e congiunta della conoscenza e della felicità. Non sono stati molti, dicevo, gli intellettuali all’altezza di questo modello di civiltà e della capacità di trasmetterne l’esempio.

QUEGLI INTELLETTUALI, però, hanno per qualche tempo reso migliore la germanistica e l’editoria italiana trasferendo in esse il senso della cultura per la vita. Con la scomparsa di Enrico Ganni sembra, ora, che quel tempo sia finito per sempre. Ma ciò che muore, avrebbe detto Goethe, diventa. E il divenire di ciò che è stato deve essere il dovere di chi resta.