Pagine estive intorno alle «amate sponde»
Immaginare i fiumi, il loro scorrere lento o tumultuoso, raccontandoli dal punto di vista letterario, storico, mitologico, naturalistico, in bilico tra passato e futuro (a volte, disastroso): da principio, quando abbiamo pensato a questo grandioso protagonista dei paesaggi del mondo per «abitare» le narrazioni dell’iniziativa estiva culturale, non potevamo prevedere il dramma della siccità che si sarebbe abbattuto su molti di loro, assottigliandone catastroficamente i bacini d’acqua. Le pagine della cultura iniziano oggi questo viaggio lungo e oltre gli argini dei fiumi, riconsegnandoli al loro splendore primigenio, navigando sul Colorado, l’Enisej, il Po ma anche l’Arno, il Tevere, l’Aimone, il Tamigi, il Rio delle Amazzoni, il Tigri, il Kentucky o l’Ebro. Si scrutano le sponde limacciose e, in alcuni casi i misteriosi fondali, alla scoperta di città sommerse e riaffiorate, di archivi perduti e riconquistati, di battaglie divenute leggendarie, dalle guerre puniche fino all’esercito repubblicano che affrontò il Generalissimo. E si guarda all’iconografia del fiume nelle stampe dei maestri giapponesi dell’epoca Edo, così come alla letteratura «fluviale» di Joyce che canta il Liffey.

 

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L’attrice Kleopatra Karatygina, che la Siberia in tournée l’aveva girata in lungo e in largo, lo aveva avvertito: meglio raggiungere l’isola di Sachalin in nave, passando per Odessa, Aden, Singapore, Hong Kong e Vladivostok, per poi rientrare via terra. Ma, nonostante le raccomandazioni dell’amica, Anton Cechov, per arrivare a quella lontana colonia penale che voleva assolutamente visitare, decise di fare di testa propria. Forse desideroso di emulare l’impresa del naturalista Nikolaj Prževal’skij che qualche decennio prima aveva esplorato la regione dell’Ussuri, lasciò il 21 aprile 1890 la stazione Jaroslavskij di Mosca – la stessa da cui partono tuttora i treni della Transiberiana – per affrontare un viaggio che si rivelerà non solo arduo, ma anche estremamente tedioso. Nelle lettere ai familiari lo scrittore descrive infatti le condizioni «terrificanti» delle strade siberiane, nonché la spiazzante sensazione di star retrocedendo, man mano che avanzava nel calendario, dalla primavera al più rigido degli inverni.

IL PRIMO AUTENTICO sussulto estetico, in un tragitto altrimenti avaro di emozioni, Cechov lo ebbe dopo duemila verste di «esili betulle sghembe», quando alla gelida e uggiosa pianura che aveva fin lì attraversato subentrarono a un tratto le acque sorprendentemente impetuose di un fiume immenso: lo Enisej. Tale fu l’impressione che nei suoi appunti non si peritò ad avvicinare quel «gigante» nientemeno che alla «madre» di tutti i corsi fluviali russi: «Non se l’abbiano a male gli invidiosi estimatori della Volga – scrisse – ma io in vita mia non ho mai visto un fiume più magnifico dello Enisej.
Se il fascino della Volga è quello di una bella fanciulla tutta agghindata, timida e un po’ malinconica, lo Enisej è un guerriero erculeo e sfrenato che non sa che farsene della sua energia e del suo giovanile ardore. Sulla Volga l’essere umano è partito da gesta temerarie per culminare in un lamento che si ostina a chiamare canto; le più rosee e accese speranze hanno lasciato il posto a quel senso di impotenza altrimenti noto come pessimismo russo. Lungo lo Enisej invece la vita è iniziata tra i gemiti ma terminerà con imprese che noi non ci sogniamo neppure».

SCHIERANDOSI con ottimismo forse eccessivo dalla parte di chi vedeva nella Siberia una land of opportunity non dissimile dal Far West americano e ancora tutta da scoprire, Cechov coglieva un tratto peculiare che avrebbe caratterizzato anche in seguito la percezione dello Enisej nella tradizione popolare, e cioè la sua «virilità». Se in russo il termine equivalente a «fiume» (reka) è femminile (a differenza che in italiano o in tedesco), e di conseguenza femminili sono corsi d’acqua fondamentali per la cultura russa come la Neva, la Moscova o per l’appunto la Volga, lo Enisej viene chiamato invece affettuosamente dai siberiani con il vezzeggiativo batjuška («babbino»), e maschile – anzi «machista» – è l’immaginario legato a questo fiume impressionante, non tanto per la lunghezza (3487 metri), quanto per l’estensione del suo bacino idrico (2.580.000 chilometri quadrati, uno dei più vasti del pianeta).

D’ALTRONDE, IL SUO NOME stesso nella lingua degli evenki – una delle tante popolazioni indigene che abitavano le sue sponde – significava per l’appunto «grande acqua» (Ioanes i). Un epiteto certo non esagerato per un fiume che, scaturendo ai confini con la Mongolia nella repubblica autonoma di Tuva, si getta nel Mar Glaciale Artico con un’ampiezza del letto alla foce che tocca i cinquanta chilometri.
L’ammirazione stupefatta mista a reverenza sperimentata da Cechov al cospetto di questo «gigante» al quale le rive sembravano andar strette, era probabilmente dovuta non solo al contrasto con la monotonia dei paesaggi contemplati fin lì, ma anche al fatto che all’epoca dello Enisej non esistevano immagini in grado di restituirne la maestosità. È verisimile che lo scrittore-medico – afflitto da una vera e propria «Mania Sachalinosa» autodiagnosticata che lo spinse a compulsare prima della partenza libri su libri d’argomento siberiano – avesse quantomeno sfogliato Viaggio pittoresco da Mosca alla frontiera cinese, album edito a San Pietroburgo nel 1819 e illustrato da Andrej Martynov.

FRA I PRIMI VIAGGIATORI tout court a raggiungere lo Enisej nel 1805 nell’ambito di una spedizione patrocinata dall’ambasciata cinese, il pittore nato sulle rive della Neva e sepolto a Roma al Testaccio si disse entusiasta delle vedute contemplate nei pressi della città di Krasnojarsk – le stesse che, da lì a meno di un secolo, avrebbero affascinato anche Cechov: «Qui a ogni piè sospinto ti imbatterai in scorci degni di un artista», annotò. Peccato che il suo stile raggelato, succube della pittura paesaggistica europea, poco riesca a trasmettere di luoghi tanto selvaggi.
Per godere di una rappresentazione davvero ispirata di quelle sponde montuose che Cechov definì «oniriche», paragonandole addirittura ai dirupi del Caucaso, bisognerà attendere Vasilij Surikov, nativo di Krasnojarsk, che alle raffigurazioni enfatiche di episodi clou della storia russa (fra cui anche l’epopea fluviale del ribelle Sten’ka Razin sul Volga) alternò paesaggi impressionisti en plein air della sua terra (o, meglio, del suo fiume) natale, virati nei toni del monocromo.
Una linea ripresa anche dall’esponente del gruppo «Fante di Quadri» Pëtr Koncalovskij, che in una serie di acquerelli realizzati all’inizio degli anni Cinquanta tornerà alle impressioni del suo soggiorno a Krasnojarsk nell’imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale.

LA DELICATA ESUBERANZA della gamma cromatica, le chiatte stilizzate sul fiume e le minuscole sagome umane miniaturizzate, che nel loro schematismo alludono all’arte dei nativi siberiani – tutto qui pare richiamare in auge l’immaginario primitivo delle tante leggende legate al fiume. Come quella diffusa fra i buriati e messa per iscritto da Vasilij Starodumov che «spiegava» l’intricata conformazione del bacino idrico dello Enisej (cui appartiene anche il lago Bajkal) con un dramma familiare non meno complesso.
L’Angarà, infatti, affluente di destra, altro non sarebbe che la figlia prediletta del Bajkal (da cui effettivamente nasce): innamoratasi perdutamente dello Enisej, per confluire in lui avrebbe rotto il fidanzamento con un altro fiume siberiano, l’Irkut, suscitando così le ire del padre.
Lo testimonia tuttora la «roccia-sciamano» (šaman-kamen’), una rupe che si erge là dove l’Angara defluisce dal Bajkal, luogo sacro e sfondo di antichissimi riti, che sarebbe in realtà una pietra scagliata dal lago furibondo verso la figlia, «scappata» con lo Enisej. Anche da questo mito emerge l’immagine «maschile» del fiume che si sovrappone a quella non meno virile dei suoi abitanti, per lo più cacciatori e pescatori che, rifuggendo dalla cosiddetta civiltà, non dipendono in alcun modo dallo Stato, e vivono in una eterna ma rispettosa contesa con la Natura.

QUESTA VISIONE che enfatizza la distanza dello spirito siberiano dalla «corruzione» della società moderna torna anche nella saga cinematografica di Dmitrij Vasjukov Individui felici (Sastlivye ljudi) che ha portato di recente i riflettori sullo Enisej, complice anche una versione inglese più breve firmata da Werner Herzog. Qui, in un tripudio di motoslitte, declivi innevati, tramonti e pesci colossali presi all’amo, si celebra la lotta dei trecento abitanti del villaggio di Bachta contro il clima subartico e l’isolamento geografico. Una versione forse idealizzata di quella «vita piena, intelligente e audace» che Cechov sognava si realizzasse un giorno sulle rive dello Enisej.