Sono bravi ad ammantarsi di “eticità”, a fare beneficenza. Quasi geniali nel loro marketing patinato. Ma poi cadono lì: i diritti del lavoro. Non c’è proprio modo che le multinazionali che operano nel nostro Paese si diano una regolata: magari i loro dipendenti sono garantiti e ben pagati, ma l’appalto resta selvaggio. O meglio, in questo caso il sub-appalto. I brand coinvolti sono Eni, Enel e Vodafone, e alla base della piramide ci sono 22 lavoratori che in 6 mesi non hanno mai visto un euro.

La storia che raccontiamo è accaduta a Milano: ha dell’incredibile, ma nel disastrato panorama italiano sappiamo che queste vicende non sono per nulla rare. Protagonista è una imprenditrice, Giovanna Mascara, che apre un call center a Cesano Boscone, nel milanese. Tutto in regola: partita Iva, contratti a tempo indeterminato – addirittura full time. Una “santa”, vista la cattiveria di tanti che vanno avanti a cocoprò.

La ditta Mascara deve contattare piccole imprese, negozi, amministratori di condominio, per proporre contratti a nome di Eni, Enel e Vodafone. Va detto subito che non ha un appalto diretto da questi gruppi, ma un subappalto preso a sua volta da appaltatori dei tre colossi: tali Kaledonia, Fra.ri.com e 2A Service. Alla Mascara tocca solo prendere gli appuntamenti telefonici, poi le tre ditte appena citate manderanno gli agenti.

L’imprenditrice ha aperto un vero e proprio contrattificio, ma non ha mai retribuito nessuno. La denuncia viene dalla Filcams Cgil, che ha presentato una serie di esposti: all’Ispettorato del Lavoro (che non si è mai mosso), alla Asl e all’Inps: questi ultimi hanno fatto delle ispezioni la settimana scorsa, registrando dipendenti mai pagati e anche 3 persone che lavoravano in nero.

L’impresa di Cesano Boscone ha aperto i battenti in un appartamento privato, con diverse ingiunzioni di sfratto, nel novembre scorso. «Saremo passati lì in 22 – racconta Sharon, una delle lavoratrici – Tre locali e una cucina vuota, con i cavi scoperti e un tavolo per pranzare. Nessuna postazione con computer e telefoni, ma solo dei tavolini bianchi dell’Ikea su cui era appoggiato un cellulare con una ricaricabile e una lista delle pagine gialle scaricata da Internet».

«Per me e per le altre ragazze, quel lavoro, addirittura un full time a tempo indeterminato, si era annunciato come una manna: venivamo tutte da impieghi precari, e avevamo bisogno di lavorare. Io mantengo mia madre, un’altra collega ha due figli a carico. La signora ci ha imbambolato con le sue promesse, e ha sempre assicurato che gli stipendi sarebbero arrivati. Ma sono passati mesi, e noi non abbiamo mai visto nulla».

Quindi sono arrivate le dimissioni, ma l’imprenditrice ha continuato ad assumere. Mica il Pil si può fermare per due denunce. «Sembrava affidabile – continua Sharon – Portava al lavoro la sua bimba di 6 mesi, e quando si stancava ci chiedeva spesso di staccare per accudirla. Anche diverse ore».

Il multitasking. Va specificato che alle ragazze veniva richiesto di negare che si trattava di appalti: «Spesso il cliente contattato ci chiedeva “ma siete proprio dell’Eni Eni? Sto parlando con personale Enel?”. Noi dovevamo rispondere che “l’agente si presenterà con tesserino di riconoscimento Enel, Eni o Vodafone”». Come dire: non preoccupatevi, siamo affidabili. Mica pizza e fichi.

Delle tre ditte appaltatrici non è giunta notizia, ma quello che preme al sindacato è sensibilizzare le multinazionali. Che magari non sapevano nulla, ma non per questo possono esentarsi dalle responsabilità: «Le abbiamo avvisate una decina di giorni fa, e solo Vodafone ci ha risposto, chiedendoci un incontro – dice Giorgio Ortolani, Filcams Lombardia – Noi chiediamo un controllo serrato della filiera degli appalti». Il confronto si svolgerà questa mattina nella sede Vodafone di Lorenteggio, mentre fuori i lavoratori manifesteranno con le maschere del pinguino da spot. Ma Enel ed Eni si faranno sentire?