Adrien Tournachon (Nadar jeune), “Le Mime Charles Deburau écoutant”, 1854, Parigi, musée d’Orsay

 

Che rutilante fête foraine occupa – con le sue meraviglie, i suoi incanti, i giochi e i passatempi – le ombrose sale d’esposizione di Enfin le cinéma! che affacciano sulla grande galleria al pian terreno del Musée d’Orsay, in questo piovoso autunno parigino.
Come per ogni Luna Park che si rispetti, il buio diurno della capitale francese magnifica d’altronde il caleidoscopio di luci e colori richiamato da settembre sulle sponde della Senna. Automi semoventi presi a incantar bisce meccaniche, quadri luminosi, cartoline variopinte con timbri del 1889, pierrot tristi, marionette ritagliate nelle gelatine, sculture di carne effigiate in fotografia, paraventi elegantissimi di nitore giapponese, panorami cruenti e vedute mozzafiato, Loïe Fuller vestita da farfalla, la Bernhardt tragica consegnata al marmo in tinte volgari, una Fuga in Egitto ai piedi della Sfinge, porcheriole in bianco e nero sagomate come buchi di serratura.
Facile perdersi o, meglio, smarrirsi per distrazione ed entusiasmo in un dedalo tanto ricco e così fiabesco: chi ha tempo, insomma, di soffermarsi sulle pur colte didascalie mentre Vallotton ci riassume il Bon Marché, in un trittico da chiesa laica, o quando lo Château des Fleurs agli Champs Élysées si accende di una notte ferita dai lampioni? O mentre affiches gigantesche promettono spettacoli di esistenze minime alla lente di un microscopio elettrico e vertigini improvvise ci assalgono in una ripida scalata della Tour Eiffel, registrata dai Lumière?
Certo, in ogni parco giochi compaiono attrazioni ormai note, di fronte alle quali una calda consuetudine, il ricordo ancor vivo del passato stupore hanno sostituito gli «ohhhhh» di ammirazione, il tremolio delle gambe o il sorriso estasiato del ‘mai visto prima’. All’Orsay, ad esempio, ritroviamo le girandole festose e le lanterne magiche che si era imparato a conoscere negli studi di Laurent Mannoni, nel libro Grand Art de la lumière et de l’ombre con cui avevamo rintracciato il postmoderno nei borghesi intrattenimenti di un’appagata fin-de-siècle; ci imbattiamo anche nei megaletoscopi di Carlo Ponti, negli apparecchi per proiezioni Demaria, nei fantascopi e nelle viste in stereografia che l’indagine archeologica sulle origini del cinema ci ha ormai reso familiari; rincontriamo soprattutto icone vere e proprie del transito dalla pittura accademica a uno sguardo rinnovato, rapace e fotografico, come la strabiliante Miss Lala di Edgar Degas, pittore più moderno dei moderni, in quella banda di rivoluzionari sazi che furono gli affiliati del riottoso Impressionismo.
Tuttavia, non poche sono le sorprese, a Parigi, convocate dai tre curatori – Dominique Païni, Paul Perrin e Marie Robert – per suggerire come, sullo scorcio dell’Ottocento, si fosse creata (verrebbe da dire istituzionalizzata) una richiesta spettatoriale determinante per affrettare l’invenzione del cinema, la messa a punto di una tecnologia sofisticata indispensabile per catturare con nitidezza e precisione il movimento delle immagini.
Ad esempio, non conoscevamo – o avevamo dimenticato – l’incredibile fantasmagoria intitolata ai tulipani e firmata da Segundo de Chomón, nato spagnolo ma educatosi in Francia, che spinge a effetti di magia ancor più grafici i già impressionanti fuochi artificiali di un Méliès; ma avevamo anche scordato lo scorcio ‘a precipizio’ del Refuge di Caillebotte, dipinto con la camera più che col pennello, il suo Linge séchant au bord de la Seine o il non meno iridato – fatto sconto di un prezioso bianco e nero – Bocal aux poissons rouges, impresso dai Lumière in anticipo di dieci anni sui domestici esperimenti subacquei di Matisse.
Sono poi gli accostamenti giudiziosi e accorti costruiti di sala in sala a sollecitare sogni e pensieri, ulteriori e nuovi. Struggente l’idea di far rimare, dans un coin, i diorami brevettati da Louis Daguerre con le Cattedrali di Monet, riducendo capolavori e dispositivi al racconto di istanti e di stati d’animo transitori; efficace lo spunto di avvicinare le sculture ‘cinetiche’ di Marey ai vasi floreali dell’art nouveau transalpino, alle foto di onde e di fumi prodotte da ignoti, nel rispetto di sensibilità condivise; arguta la trovata d’allestimento per lo spazio riservato alle vedute urbane: un rettangolo di finestre aperte sulla città – la Ville Lumière, quale altra? – con al centro, come meridiane, schermi di trasparente consistenza, tesi a catturare le prime pellicole girate in strada, sui tetti delle case, a cavallo dei monumenti, all’ingresso di edifici iconici per la nuova mappa della Modernità. In cauda spectaculum: davvero giusta la pensata di consacrare l’ultima stanza – un cunicolo nero e stretto, ingombro di file di scomode sedie – alla comparsa della sala cinematografica come evento necessario per la vita quotidiana del XX secolo. Non si poteva meglio architettare quest’uscita di mostra, se non associando la ‘prospettiva rovesciata’ del film di Perret, Léonce cinématographiste (ma che esistenza avventurosa quella dei primi spettatori!), a scatti e dipinti d’un colpo interessatisi agli ingressi di questi maestosi templi contemporanei, aggrediti da folle, invasi dalle réclame e dalle insegne luminose.
Perfino nella struttura d’insieme, del resto, la mostra (aperta fino al 16 gennaio) intende operare una revisione critica della consistente bibliografia fin qui dedicata al tema, reinterpretando anche gli eventi già incardinati su focus affini (in mente l’esposizione, bellissima, del Musée des Beaux-Arts di Lione risalente al 2005 o quella, meno recente, del MoMA curata da Peter Galassi nel 1981): l’ordinamento delle opere rispecchia infatti la rinuncia a una lettura di carattere ‘teleologico’ che, per anni e secondo interpretazioni diverse, ha fatto delle proiezioni su grande schermo, dello scorrere di una pellicola, l’accadimento inevitabile per un’intera cultura visiva. Come se il successo dell’invenzione dei Lumière si fosse imposto via Zeitgeist prima che all’interno di un quadro culturale e scientifico, in un’ottica spietata di competizione commerciale, in un contesto innervato – almeno fino al 1905-’07 – da dinamiche industriali, rivolto a esigenze spettacolari piuttosto che ispirato a una qualsivoglia intenzionalità artistica.
Forzando pertanto la successione rigorosa di una lunga sequenza di sale, i curatori hanno raccordato la propria riflessione procedendo per grandi temi – oltre allo spettacolo urbano, quello della natura, quello del corpo, quello della storia – in grado di allacciare, ben al di qua di un’idea corsiva di ‘sviluppo’, media disparati e differenti ispirazioni, progetti ‘autoriali’ variegati almeno quanto le esigenze di pubblici distinti. A ribadire la rottura di una concezione progressiva e, in un certo senso, ’indirizzata’ hanno poi scelto di anteporre a sezioni siffatte un introibo di lirismo squisito, dedicato alle molte attualizzazioni ottocentesche del mito di Galatea e Pigmalione: il celeberrimo quadro di Gérôme, nella versione della raccolta Pittas, è avvicinato, in apertura, a un bel corto comico, ispirato al mito greco e girato nel 1898 con la diva Jeanne D’Alcy, ma soprattutto a una tenera fotografia post mortem, di quelle diffuse fra i lutti dell’Ottocento europeo come estremo ricordo concesso ai familiari.
Il risultato è dunque duplice, oltre che riuscito. Non solo, infatti, tale avvio sottrae a un meccanico finalismo la nascita del cinematografo, riannodandola piuttosto alla valenza atemporale ed eterna delle leggende; esso richiama, allo stesso tempo, uno dei moventi più profondi che portarono a quel trovato, e cioè la paura della perdita, il timore di una dissipazione definitiva e irreversibile.