Leggo il manifesto da “sempre”, l’ho sempre sostenuto, è sempre stato il “mio” giornale. L’intera ultima pagina di pubblicità Enel è stata una batosta per me, non credevo ai miei occhi. Il manifesto è stato il “mio” giornale per tutta la vita soprattutto per il suo altissimo senso etico, per il suo non vendersi mai. Non c’è giustificazione economica che tenga perché il manifesto faccia pubblicità a una multinazionale. Ripensateci per favore, non è un caso se si sceglie per quasi 40 anni di leggere tutti i giorni un giornale come il manifesto.
Gaia Capogna, Roma

Se ritengo di avere una qualche capacità di conoscere e interpretare quanto accade ogni giorno intorno a me e trovarvi un filo di senso per orientarmi nella realtà, lo devo molto all’allenamento mattutino sulle pagine del manifesto, che dura da quaranta anni. Perciò non scaglio anatemi, ma pongo a me e rivolgo a voi due domande che credo possano essere utili per un ragionamento rivolto al bene del quotidiano e del movimento contro il carbone di cui faccio parte.
Come è possibile che Enel si rivolga al manifesto per una pubblicità a tutta pagina su un giornale che dovrebbe sostenere le lotte degli ambientalisti contro il carbone e i signori dell’inquinamento fossile, ambientalisti che vengono contrastati dalla stessa azienda in tutti i modi a livello locale e nazionale? Perché il manifesto accoglie senza discussione e patemi d’animo questa pubblicità, che ferisce i movimenti? Concordo con chi dice che il problema è certamente più ampio della pubblicità su un giornale: qui a Civitavecchia dove c’è una megacentrale a carbone i “contributi” Enel di decine di milioni di euro sono stati accolti e messi nel bilancio comunale dalla maggioranza di centrosinistra (in cambio di un’autorizzazione a bruciare più carbone), come aveva fatto in precedenza il centrodestra. Tutto questo nonostante che i gravi danni alla salute della popolazione prodotti dall’inquinamento siano da molto tempo sofferti, dimostrati e conosciuti.
Maurizio Puppi, Civitavecchia

Due lettere per noi importantissime quelle di Gaia Capogna e Maurizio Puppi. Lettrice e lettore di lunga data che difendono, giustamente, i contenuti e l’immagine del manifesto «che non si vende mai». Nemmeno adesso. Ma che cerca di vivere non solo sopravvivere, dopo una crisi gravissima che l’ha attraversato. Riflesso, probabilmente, della generale autodistruttività e azzeramento della sinistra in questo paese. Ma se, come noi, vengono da lontano, non possono non sapere che la storia del manifesto è anche la storia del suo rapporto critico con i mezzi finanziari necessari per sostenere l’impresa di un «quotidiano comunista». Con il nodo delle vendite, perché il manifesto è pur sempre una piccola merce che rivendica il ruolo di andare contro i valori di mercato. E con quello della pubblicità.
Quando apparve la pubblicità del tonno Rio Mare, nei lontani anni Settanta, fu una valanga di proteste. Alle quali Stefano Benni rispose inventando lo slogan «Tonno Riomare, tonno extraparlamentare». Da ridere. Ma anche da capire. Noi non cambiavamo il senso della merce-tonno (c’era già la campagna in difesa dei delfini), ma quella inserzione sulle nostre pagine risolveva tanti problemi amministrativi.

Per anni siamo stati esclusi, per i nostri articoli a favore della lotta operaia e per le nostre inchieste, dalle inserzioni della Fiat. Ma non abbiamo mai smesso di assumere il punto di vista della classe operaia che lottava e lotta contro gli interessi della Fiat. Come siamo esclusi tuttora dalla grande pubblicità che vede ricoprire più della metà di giornali come «Repubblica» e «Corriere della Sera». In crisi anche loro e senza sollievo risolutivo dai grandi inserzionisti. La crisi della carta stampata è precipitosa. Abbiamo pensato e pensiamo tuttora che la battaglia per avere più pubblicità perché il manifesto viva sia una parte costitutiva della nostra battaglia politica quotidiana.
Ma le due lettere dei nostri lettori ci fanno indubbiamente riflettere. Perché la pubblicità dei grandi gruppi è diventata ormai più pervasiva, più politica e mirata. E allo stesso tempo esistono movimenti capillari e diffusi che su temi specifici, ambientali ma non solo, mettono in discussione le scelte delle multinazionali, a partire da quelle nostrane. Il
manifesto (che è contrario alle centrali a carbone) non smette e non smetterà di dare voce a queste battaglie e, proprio per questa diversità giornalistica e politica, a scontrarsi con gli interessi delle multinazionali fino a influenzarne l’informazione economica e l’immagine che hanno di sé. Certo non da soli, con i nuovi movimenti di lotta, consapevoli che l’elemento informativo è diventato un contenuto ineliminabile del nuovo capitalismo e probabilmente della sua crisi.

Concludendo. È vero che «il manifesto quotidiano comunista» non si svende (…non si vende mai), purtuttavia deve vendere se vuole continuare a esistere. Indicateci le ambiguità come hanno fatto Gaia Capogna e Maurizio Puppi, aiutateci a fare di questa contraddizione un fatto produttivo, a trovare sostegno diretto a partire dalle vendite (perché potremmo morire «belli e invenduti»); e indiretto nelle campagne d’informazione e controinformazione. Sosteneteci a trovare più inserzionisti e diversi, magari anche quelli di movimento, delle nuove strutture produttive, dei nuovi centri di aggregamento, della nuova progettualità.

Tommaso Di Francesco