Il patrimonio letterario giapponese, dall’epoca premoderna sino a quella contemporanea, include un numero tutt’altro che esiguo di opere narrative, poetiche e teatrali scritte da donne, a cominciare dal Genji monogatari, attribuito alla dama di corte Murasaki Shikibu, scritto in un’epoca – l’XI secolo – celebrata da alcune scrittrici giapponesi del Novecento come una sorta di età dell’oro della narrativa prodotta dalle donne.

Murasaki è considerata l’autrice premoderna più rappresentativa del cosiddetto joryu bungaku, cioè della letteratura (in stile) femminile, categoria di conio moderno, cristallizzatasi intorno agli anni Venti del Novecento e divenuta oggetto di dibattito soprattutto a partire dagli anni Ottanta, quando fu evidenziato il carattere «femminile», in genere impressionistico e sentimentale, della produzione letteraria da una prospettiva di genere. Oggi meno utilizzata ma piuttosto comune sino a epoche recenti, la categoria del joryu bungaku, è legata a un premio letterario importante, il Joryu bungaku sho, inaugurato all’inizio degli anni Sessanta e abolito dopo il 2000, che nel 1966 fu vinto da Enchi Fumiko, acclamata dalla critica come una delle eccellenze letterarie del dopoguerra, grazie a un romanzo, Namamiko monogatari, scritto nel 1965 e da pochi giorni finalmente disponibile nella preziosa traduzione di Paola Scrolavezza con il titolo Namamiko L’inganno delle sciamane (Safarà, pp. 236, € 18,50).

Interessata al repertorio teatrale e letterario giapponese moderno e tradizionale e autrice della trascrizione del Genji monogatari in giapponese moderno, Enchi costruisce, attraverso il Namamiko monogatari, una narrazione che fonde argutamente l’immaginario premoderno con quello a lei coevo, evidenziando il rapporto dinamico che lega la letteratura alla Storia e dimostrando la difficoltà (se non l’inutilità) di individuare nella prima esclusivamente la finzione e nella seconda la verità.

Nel prologo del romanzo, una voce narrante anonima, in realtà Enchi stessa, introduce il lettore a un ipotetico manoscritto inedito di epoca imprecisata oramai perduto, il Namamiko monogatari, «forse» parte della collezione lasciata in eredità dal famoso studioso britannico Basil Hall Chamberlain al linguista e filologo Ueda Kazutoshi, nella realtà il padre di Enchi.

La voce narrante, pur avendo letto quel manoscritto da bambina, molti anni prima, si propone di esercitare la sua memoria, come avrebbe fatto una cantastorie della tradizione, e rimaterializzare il Namamiko, una sorta di versione alternativa dello Eiga monogatari, scritto tra l’XI e il XII secolo e tradizionalmente attribuito a una dama di corte dell’epoca, in cui si celebra l’operato del potente reggente Fujiwara no Michinaga.
In Namamiko, le orchestrazioni di Michinaga, finalizzate a garantire la posizione della figlia come consorte principale dell’imperatore, sono messe in luce, rovesciando così il panegirico che gli tesse lo Eiga e avviando il lettore a una narrazione articolata, in cui, più che l’amore puro tra l’imperatore e la «rivale» della figlia di Michinaga, prevale la complessità dei rapporti umani e delle relazioni di potere, e l’ambivalenza dei comportamenti. Impossibile da rendere in traduzione, questa ambivalenza compare già nel titolo, Namamiko, dove il termine nama unisce alla valenza di «falsa», «ingannevole», quella di «inesperta» o «immatura»: entrambe le accezioni sono presenti nel libro, soprattutto in riferimento alla figura di una (pseudo) «sciamana», utilizzata da Michinaga per mettere in atto i suoi stratagemmi, che non corrisponde in modo aproblematico alla figura della (o del) medium del Giappone premoderno, ma è saldamente connessa a un concetto chiave rivitalizzato e rifunzionalizzato dai folkloristi giapponesi della prima metà del Novecento, impegnati in un processo di feminilizzazione dello Shinto, secondo il quale le donne aristocratiche del Giappone antico sarebbero state tutte dedite alle pratiche rituali nei santuari, e in un riposizionamento della donna all’interno di un contesto sacrificale e garante della tradizione.

Le sottigliezze presenti nel Namamiko monogatari si riflettono, sul piano formale, nell’anticare il linguaggio – operazione che rappresenta una sfida notevole per il traduttore – ulteriore dispositivo utilizzato da Enchi per «complicare» il rapporto tra antico e moderno e, al contempo, smentire la linearità della Storia e delle storie. La sofisticata struttura del romanzo che, alterando un’espressione usata da Hayden White, si direbbe un historesque novel, o una versione moderna del monogatari classico, sembra suggerire che la «medium» autentica e contraffatta insieme sia Enchi stessa e che a giocare il ruolo di protagonista siano proprio le strategie narrative da lei messe in scena e magistralmente intrecciate con quelle politiche (e maschili) di Michinaga.