A Cannes i giornalisti sono tutti nervosissimi per via del caffè offerto e scroccato in sala stampa alla fine di ogni proiezione nel Palais de Festival. Nespresso ci va giù duro con l’autopromozione e rintrona le menti più importanti, quelle che suggestioneranno un potenziale pubblico verso una pellicola o un’altra, con botte di caffeina di varia potenza. Non berlo equivale al tradimento della categoria, della missione, dell’avventura festivaliera. Superfluo tentare di nascondere che non bevo caffè dall’anno Duemila: non per vezzo o fioretto, piuttosto per una fulminante gastrite notturna dopo la quale luminari mi obbligarono ad abbandonare la Nave dei tossici della sostanza più abusata nel nostro paese, dopo l’alcol e il tradimento (i luoghi comuni dalla Francia escono di bocca in men che non si dica). Di conseguenza (alla mia astinenza) mi aggiro per le sale stracca, gli occhi abbottati, bocca impastata: ogni bottiglietta d’acqua trovata negli zaini viene sequestrata all’entrata da eleganti garçons della sicurezza (che poi veramente la privazione dell’acqua è una delle torture più temibili, ora lo posso garantire).

Una volta su due non riesco a entrare in sala a vedere il film che mi ero programmata, il mio pass giallo della press, all’apparenza così lusingante, passa dopo altre tre categorie, gli invitati, gli accrediti rosa e i blu, sempre membri della stampa ma di livello gerarchico più elevato. Delusa non riesco più a rimediare al volo rituffandomi a gamba tesa in un’altra estenuante fila (che può durare fino a un’ora e tre quarti vani: unico piccolo premio vedere l’anziano maestro americano del documentario Frederick Wiseman aspettare davanti la transenna, – sono troppo scarica senza caffeina e dopo la lunga attesa in piedi – allora mogia mogia, con la coda tra le gambe ma l’animo alto, nel cielo, per il solo fatto che, accidenti a me, sono a Cannes durante il festival del cinema più glamour e chiacchierato e rinomato del mondo.

Torno sui miei passi, percorro i vicoli dietro la Croisette, taglio la rue d’Antibes, meta privilegiata degli acquisti (grandi magazzini qui almeno la domenica giustamente chiusi), attraverso in tre semafori la strada ad alto scorrimento fino a Boulevard Carnot, dove, in cima, c’è casa (temporanea ma assai bella). Nel cuore i commoventi candidi occhioni di Courgette (Ma vie de Courgette, film di animazione diretto da Claude Barras e sceneggiato da Céline Sciamma), il piccolo orfano di plastilina dai capelli azzurri e l’aquilone in mano. Finalmente una proiezione a cui riesco a partecipare.

Gustoso incontrare al bagno, più volte le stesse donne che si asciugano il trucco allo specchio dopo la visione: siamo tutte delle mammolette o semplicemente io e loro ci commuoviamo per le stesse cose? Evviva le emozioni, evviva il cinema di poesia che ti guarisce, come ha detto Jodorowsky dopo il primo passaggio pubblico alla Quinzaine del suo Poesía sin fin. Evviva Cannes che ti fa credere che esista un pubblico che vuole vedere un cinema diverso, un cinema a cui importa l’atto del fare e non quello di raccogliere il frutto, un cinema che non è prodotto ma arte, un cinema altro dalle logiche del profitto. Evviva!

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