I quindici pezzi narrativi di Corrado Morgia raccolti sotto il titolo di colore fritzlanghiano La donna dei ritratti e altri racconti (Robin edizioni, pp. 320, euro 15. il volume sarà presentato domani a Roma alla libreria Odrade, Via dei Banchi Vecchi, ore 18), pur concepiti dentro un’atmosfera di inquietudine e di malessere, non rientrano in ciò che nel secolo scorso Sigmund Freud chiamò Disagio della civiltà e il poeta britannico Wystan Hugh Auden Età dell’ansia, ma nascono piuttosto dall’amarezza di una delusione storica irrimediabile. L’autore romano s’impegna con accanita lucidità a esplorarne le ragioni e il senso, nella consapevolezza che misurarsi con spirito contemporaneo con una catastrofe d’epoca significa fissarne l’elettrocardiogramma da cui si generano non più che interrogativi ulteriori o, al massimo, l’insorgenza di sintomi e di cicatrici incapaci di frenare l’emorragia del plasma liquido una volta per sempre.
La cifra che segna i racconti è quella dell’assurdo che di colpo rovescia lo spartito monocorde dei fervori e delle malinconie del quotidiano. In tutti i casi, il vissuto che vi si snoda è attraversato da un sordo rumore di minaccia, e il viluppo delle anomalie assume sempre, all’improvviso, una teatralità sinistra, sia che il testo metta in opera situazioni di delirio ripetitive (come nel racconto d’avvio, in cui aleggia l’ombra di Kafka, e quella del Borges della «Biblioteca di Babele», che, come in «Metropolis», narrazione-omaggio a Fritz Lang, si raffiguri un Impero dominato da una classe di Signori che schiacciano sotto un tallone di ferro moltitudini di schiavi, dove qualsiasi forma di lotta di classe risulta impossibile, e che – per via allegorico-fantascientifica – allude a tante realtà del nostro tempo goffo e feroce.
In tutti alita più o meno la presenza della morte, come sospetto, o come determinazione ineluttabile: qualcosa che sembra rifare il verso a quel brano della Sintesi dell’Intrepretazione dei sogni di Freud (1910) che dice: «Dovete tenere a mente che i sogni che produciamo di notte hanno, da una parte, la più grande somiglianza esterna e parentela interna con le creazioni della pazzia, e sono, dall’altra parte, compatibili con la completa salute nello stato di veglia».
Il narratore si affida a una scrittura che potrebbe essere definita «orizzontale», segnata cioè da scarso empito emotivo, di specie quasi catastale, che pure a un tratto spalanca scenari terribili. Il lettore è chiamato a una partecipazione che richiede da parte sua un alto tasso di responsabilità per non arrendersi alla magia alchemico-irrealistica di questo universo violentemente veloce e violentemente immobile, «alieno» quanto si voglia ma che pure ci appartiene senza scampo.