All’incrocio fra archeologia del presente, rivoluzione comunicativa targata smartphone e svolta (ritorno) pittoriale del linguaggio, nel 1999 nascono in Giappone gli emoji, i simboli pittografici oggi parte quasi imprescindibile del linguaggio in rete. La notizia di alcuni giorni fa è che il MoMa, il prestigioso Museum of Modern Art di New York ha deciso di acquisire per la sua collezione permanente i primissimi 176 emoji che proprio nel 1999 il giapponese Shigetaka Kurita creò per la compagnia di telefonia mobile in cui lavorava, la NTT DoCoMo. Il termine emoji deriva da «e» pittura e «moji» lettera o carattere e non è un caso che siano nati proprio in Giappone dove i «kanji», i caratteri di derivazione cinese usati per la scrittura, hanno ancora oggi una forte valenza estetica, per esempio quando si sceglie il nome da dare al bambino che deve nascere si cerca di trovare naturalmente dei caratteri con un bel significato, ma anche quelli che messi assieme abbiano un bell’aspetto ed un certo equilibrio visivo. Gli emoji al momento della loro nascita venivano usati prevalentemente per descrivere il tempo atmosferico ed indicare alcuni tipi di ristoranti e negozi e di fatto rimasero una prerogativa del Sol Levante fino al 2010 quando le cose cambiarono con l’introduzione dell’Unicode e specialmente l’anno seguente quando la Apple decise di cominciare ad usarli, il resto è storia recente.  Gli emoji acquisiti dal MoMa sono naturalmente la preistoria di quello che poi sarebbero diventati in questi ultimi 17 anni, molto rudimentali e con una definizione bassissima, 12 pixel per 12, limitati anche nella loro colorazione, solo sei le tonalità usate, ma proprio per questo loro essere aurorali ancora più interessnti. Nell’epoca del flusso digitale costante, dove tutti sembra a portata di mano in qualsiasi momento, film, video, libri e quant’altro, ma dove il continuo cambiamento dei formati e dei dispositivi può rendere obsoleto qualsiasi cosa di due o tre lustri prima, l’esempio del floppy disc è in questo senso lampante, non pare banale che un’istituzione così importante e prestigiosa come il MoMa abbia preso questa decisione. Preservare e «fissare» su altri materiali ciò che viene prodotto e creato a livello digitale potrebbe essere quindi una forma di arte in sé che ancora non siamo in grado di comprendere in tutte le sue ramificazioni e conseguenze. Proprio per questo più che interessante sarà vedere l’effetto che l’esposizione di questi 176 emoji sulle pareti del museo sortirà su visitatori e addetti ai lavori.