Prima ancora che Black Lives Matter diventasse l’ennesimo tentativo di far capire ai bianchi una verità di per sé evidente — che le vite nere contano – ci sono stati i romanzi di John Edgar Wideman, il grande autore di Pittsburgh, che fin dall’inizio della sua carriera ha sempre provato a spiegarci perché le vite nere contano, e perché contano anche quelle dei reietti. Si direbbe anzi che per Wideman contino soprattutto le vite reiette, e certo non per un vacuo romanticismo di maniera. Wideman sa bene che il più delle volte le vite diventano reiette semplicemente a causa di un’unica scelta sbagliata o perché si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato o per banalissima sfortuna. Da questo punto di vista Scrivere per salvare una vita, uscito negli USA nel 2016 e finalmente disponibile in italiano (minimum fax, traduzione di Dora Di Marco, pp. 241, euro 17,00), è un Wideman classico – tanto quanto Fratelli e custodi (1984), per intenderci, per via dell’investimento personale dell’autore-narratore – e al contempo un Wideman all’ennesima potenza. Un Wideman che, a ottant’anni e con alle spalle un curriculum impeccabile, può permettersi di fare quel che vuole. Di intrecciare questioni narratologiche alla trama di un romanzo che è anche un memoir, anche un manuale di scrittura, anche un trattato sulla verità; di presentarsi al lettore con una manciata di scene appena abbozzate e destinate a un romanzo che non scriverà mai; di mettersi a raccontare – così, di punto in bianco – di suo nonno, di suo padre e sua madre. Fa tutto questo, Wideman, con mano leggera e sicura, come senza sforzo, con naturalezza, e con una lingua che scuote e incanta. Fa tutto questo per salvare una vita intrappolata nei racconti altrui, una vita che quando finalmente gli giunge sotto gli occhi, in forma di dossier, dagli archivi dell’esercito degli Stati Uniti, sembra inesorabilmente diretta verso l’unica direzione possibile: la morte, in giovanissima età, per impiccagione dopo un processo per stupro e omicidio commessi in Italia, a Civitavecchia, durante la Seconda guerra mondiale.
La vita già scritta è quella di Louis Till, un nome che probabilmente a molti di noi dice poco o nulla. Wideman, fortunatamente è lì a ricordarci che Louis è il padre di Emmett Till, il quindicenne nero di Chicago che il 28 agosto del 1955, mentre era in visita dai parenti in Mississippi, fu rapito, seviziato, ucciso con inaudita violenza e infine gettato in un fiume. Secondo i due bianchi che furono accusati del suo omicidio, Emmett se l’era meritato per aver fischiato e fatto apprezzamenti volgari nei riguardi di una donna bianca, Carolyn Bryant, la moglie di uno dei due.
Per Rosa Parks, Anne Moody, Muhammad Ali, Miles Davis e Stokely Carmichael, la morte di Emmett Till fu uno spartiacque, l’evento traumatico che li spinse a fare di più, a fare meglio e più in fretta. Ad averli segnati in modo così indelebile fu il viso sfigurato di Emmett Till, un orrore senza precedenti che la madre, Mamie Till, decise di mostrare al mondo «perché tutti devono vedere cosa hanno fatto a mio figlio». Inutile dire che la storia di Emmett, un ragazzino per bene, che secondo i suoi assassini avrebbe molestato a parole una donna bianca, non regge. Inutile dire che nel 2008 la molestata ebbe finalmente la forza (il coraggio, la sfrontatezza?) di dichiarare a uno storico (Timothy Tyson, il quale avrebbe riportato tutto in The Blood of Emmett Till, 2015) che Emmett non aveva fatto proprio nulla di male, e che a nessuno di questa ritrattazione è mai davvero importato granché. Inutile dire, infine, che, al processo, poco dopo l’omicidio di Emmett, i due assassini furono assolti.
Durante la fase dibattimentale, tuttavia, e questo sì è significativo, tra le tante cose sensazionali, accadde anche che qualcuno facesse riferimento a un dossier militare destinato in realtà a restare segreto. Era il dossier dedicato al soldato semplice Louis Till, il padre di Emmett, lo stesso che sarebbe finito sotto gli occhi di Wideman, lo stesso in cui la corte marziale statunitense riconosceva Louis colpevole dello stupro e dell’omicidio commessi a Civitavecchia. Tale padre tale figlio, insomma. Be’, il figlio proprio no – per carattere, per la giovane età, perché cinquant’anni dopo la molestata avrebbe ritrattato ogni cosa. Ma il padre?
Al padre ci pensa Wideman, un altro che, ossessionato da Emmett Till, ipotizza da tempo di scrivere un libro su Louis. Ovvero, un libro su un fantasma che, dopo essere apparso fugacemente nei Cantos di Pound – che incontrò Louis in carcere – è scomparso. Ma chi era Louis Till?
Wideman prova a rispondere mettendo insieme le notizie reperibili sia nell’autobiografia di Mamie sia nel dossier del processo a carico suo e dei suoi presunti complici in Italia; ma soprattutto se lo immagina a partire da suo padre che, proprio come Louis, fu spedito in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Chi erano questi giovani uomini neri? Cosa hanno visto? Come sono tornati? Chi sono i loro figli? Chi sono le loro mogli?
Per inventarsi il suo Louis, Wideman crea e segue analogie sottili, spesso arbitrarie: «Avevo quattordici anni quando vidi per la prima volta la foto [del viso martoriato di Emmett] su Jet», scrive, «La stessa età che aveva Emmett Till l’estate in cui lo hanno assassinato. Lui di colore, io di colore. Lui un ragazzo, io pure». Oppure: «Di sicuro quella ragazzina mi mandò al tappeto, mi spaccò il naso, mi spezzò e divorò il cuore nel corso di un’estate che per le prime due settimane di giugno, il mese del mio compleanno, mi era sembrato il paradiso, l’ultimo giugno da vivo di Emmett Till… Emmett Till ha mai avuto occasione di fare l’amore?».
A dire il vero, le vite del giovane John Edgar Wideman e di Emmett Till non potrebbero essere più diverse e distanti. Ma il Wideman scrittore le affratella e le fa rispecchiare una nell’altra, perché quella di Emmett, entrando di colpo e con violenza nella propria, ha contribuito a darle forma. Avviene fin dalla prima pagina, quella in cui Wideman ripensa alla gioiosa sicurezza di quando, piccolissimo, suo nonno lo prendeva sulle spalle e lo portava a passeggio per il quartiere nero di Homewood, a Pittsburgh. Va tutto bene fino a che, un giorno, il bambino che lassù si sente sicuro e beato come un piccolo re, vede Clement, un ometto zoppicante dalla faccia spaventosa, la bocca sdentata e i lineamenti distorti. Lo sguardo di Clement, rammenta Wideman, «mi avvertiva che tutto quello che mi era familiare poteva essere sconvolto e svanire in un attimo». E così accade, a cominciare dal paragrafo successivo: «Nel 1955, circa nove anni dopo quell’incontro nelle strade di Homewood, avevo quattordici anni, e la foto del volto sfigurato e senza vita di Emmett Till fece il suo ingresso nella mia vita con la stessa improvvisa e indelebile autenticità di Clement».
Un’analogia tanto arbitraria non significa nulla. Anzi, conta poco più che niente. E tuttavia è sufficiente per costruire una storia, per re-immaginare e sfidare, per esempio, l’inesorabilità del dossier dedicato a Louis Till.
Limitarsi a dire che Wideman dubiti delle carte processuali sarebbe fare un torto all’intelligenza narrativa dell’autore. Perché qui non si tratta di gridare semplicemente all’ingiustizia. Wideman è un romanziere e per lui non lasciar correre è altrettanto vitale. Salvare una vita scrivendola. Riprenderla dal mare dei morti per darle un’altra possibilità.
Ci prova, Wideman, a scrivere di Louis, a inventarselo mentre è sul ring, mentre fa la prima passeggiata con una giovanissima Mamie, mentre si ubriaca in Italia insieme ad altri soldati, mentre va in cerca di donne. Ma per quanto si sforzi, la coerenza non arriva: la vita di Louis resta slabbrata anche nella finzione, anche quando ti pare di averla tra le tue mani e di riuscire a farle fare quel che vuoi. Louis, in breve, resta inesorabilmente opaco. «Non posso salvare il defunto Louis Till dalla prigione e dall’impiccagione», conclude in prossimità della fine di questo bel libro Wideman. «Il dossier Till è la mia ossessione, una specie di cavalluccio a dondolo che cavalco come un Don Chisciotte di cioccolato». Torna a cavalcioni come all’inizio sulle spalle del nonno, Wideman, e da lì prova a riappropriarsi di quella sensazione indefinibile che — da bambino – l’aveva fatto sentire «un piccolo re» e che da adulto lo aveva spinto ossessivamente a re-immaginare Louis. Anche questa volta, però, a metter fine definitivamente all’illusione ci pensa Clement, il mostro irredimibile di una verità inafferrabile. «Con le dita si tocca le labbra contratte: Shhh», scrive Wideman. «Poi senza emettere suono, la sua bocca pronuncia la forma del suo nome: Clement. E Clement non rompe il silenzio. Non mi tradisce». Non tradisce neanche Louis Till.