Emmanuelle Devos, ottava meraviglia
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Emmanuelle Devos, ottava meraviglia

Intervista Figlia d'arte, attrice impegnata, scelta da Bellocchio, ingnorata da Moretti (da ragazza)...

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

Ride, ha sempre reagito con una schietta risata a chi le ricorda che in Francia è considerata un’ actrice intello: lei, che non ha nemmeno finito la scuola, lasciando già in prima il liceo (« ero stufa delle lezioni ») e che davanti alle proteste dei genitori s’era iscritta a 14 anni a corsi di teatro, di danza e alla scuola di circo («leggevo, intanto, moltissimo» ), inerpicandosi, tra palcoscenico e set di cinema, per i sentierini del successo: «Non combinerai nulla prima dei trent’anni », le aveva profetizzato Francis Huster, attore di Rohmer e suo professore al «cours Florent», che le darà il suo primo ruolo grande schermo, quello della «femme aux seins nus», nell’86, a 22 anni, in On a volé Charlie Spencer.

Ma, agli atelier d’attore alla Fémis dove s’arrangia con qualche lavoretto, sfila a 27 anni il primo film importante, La Vie des morts (1991) di Arnaud Desplechin che diventa il suo regista feticcio, interpretandone da allora a oggi i film più importanti. E, da allora a oggi, non passa anno senza cinema (Resnais, Klapisch, Audiard, Noémie Lvovsky) o teatro (Mnouchkine, Honoré): in trent’anni, una ventina di spettacoli teatrali e un’ottantina di film, tra cui tre coproduzioni italiane, il modesto esordio di Valeria Bruni Tedeschi Il est plus facile pour un chameau… (2003) e gli eccellenti Fai bei sogni (2016) di Marco Bellocchio e Dove non ho mai abitato (2017) di Paolo Franchi. E premi prestigiosi: i due César, 2002 e 2010 (migliore attrice per Sur mes lèvres, miglior secondo ruolo in À l’origine) e il Molière per il Platonov del 2015.

«Ottava meraviglia del mondo», secondo mamma sua, fisico atipico e voce flautata, figlia d’arte, nata il 10 maggio 1964 da Marie Henriau, attrice, e Jean-Michel Devos, regista di cinema e teatro, Emmanuelle Devos, demi-sœur (‘sorellastra’ si direbbe con brutta terminologia di matrice fascista) di Valentine Sentier-Devos, morta di cancro nel ’95 a 33 anni, è ora all’ennesimo, calibrato ruolo d’attrice intellettuale nel superbo Vous ne désirez que moi, dal libro Je voudrais parler de Marguerite Duras, presentato con successo in anteprima italiana al Petruzzelli di Bari per il 13° Bif&st di Felice Laudadio, poi alla presenza della regista e dell’interprete ai Rendez-vous di Roma, con bis il 4 al Massimo di Torino: presentato da Unifrance prima della partecipazione alla Berlinale, il film di Claire Simon porta sullo schermo l’intervista che 40 anni fa Yann Andréa, giovane compagno della sessantenne scrittrice francese (interpretato da uno stupefacente Swann Arlaud), concede alla giornalista di Elle Michèle Manceaux (la Devos).

Ammirata e corteggiata dai media, da Elle a Hep Taxi!, che ne incensano il volto di vaghezza sontuosa e la sensualità terragna del segno del Toro, due figli (28 e 26 anni) avuti da Gilles Cohen, compagna dal 2006 dell’attore Jean-Pierre Lorit, da noi incontrata all’IMA (Institut du Monde Arabe) a una cerimonia dei Lumières che l’avevano premiata nel 2005 per l’interpretazione in Rois et Reine di Desplechin, Emmanuelle, chiamata spesso nelle giurie di Festival, come dieci anni fa in quella presieduta da Nanni Moretti a Cannes o, cinque anni fa, al Festival américain di Deauville presieduto da Michel Hazanavicius, non tarda a infierire simpaticamente su Nanni Moretti, appunto, che sul ‘lettino’ della rivista Psychologies, lei aveva iscritto, con Balzac e Nabokov, tra i personaggi del suo personale pantheon culturale.

Che è mai successo?
Dovevo aver e poco più di 20 anni, quando ho visto La messa è finita, dove Nanni interpreta il prete novizio di una parrocchia, che non lo segue, che gli è estranea. Mi ci sono completamente identificata. Quel film era la mia eco: la sfasatura tra quel che uno è davvero e quel che gli altri ne percepiscono. Gli ho scritto subito: e lui non mi ha mai risposto. È poi capitato che ci siamo incontrati, 20 anni più tardi, al Festival di Torino, lui in giuria, io premiata. Gli ho evocato la vicenda e lui ha fatto il disperato…

Attrice: perché? Perché già i genitori…?
Probabilmente. Ma non dipende solo da questo. Cercando nella memoria, ricordo che a 6-7 anni, mi mettevo davanti allo specchio e mi guardavo fissa per cercar di vedere quel che avevo dentro: penso di esser divenuta attrice per conoscere meglio me stessa.
In genere gli attori cercano, all’opposto, di scampare a sé stessi.
Non è il mio caso. Un giorno alla radio ho sentito dire a un regista: « Si è attori perché non si sa chi si è». Una rivelazione. Ho capito che volevo divenire attrice per vedermi dentro. Ancora oggi, cerco ruoli di riparazione, come, nella pièce 24 m3 de silence di Geneviève Serreau, il monologo in cui una donna tenta di ristabilire un contatto con qualcuno d’assente. Parla, apre un armadio, odora i vestiti… Dopo settimane di repliche, una sera, quando apro l’armadio, il cielo mi si spalanca nel cervello: Valentine, mia sorella morta sei anni prima ! Era per lei che recitavo in questa pièce.

Sua sorella le manca?
È sempre qui. Sempre. È il mio doppio. Ho l’impressione d’aver assorbito quel che lei era: solare. Io sono piuttosto lunare e le ho preso la solarità. Sono sicura che, fossi stata io a andarmene, lei avrebbe fatto lo stesso con quel che sono. Adoro sognarla, ritrovare la sua risata. Perdere un fratello o una sorella è come essere amputati d’un arto: ma nello stesso tempo si recupera qualcosa. È la generosità dei morti. Valentine non è fisicamente più qui ma ne ho integrato la personalità

Ha un animo solitario?
Solitario, no, ho però bisogno di dedicare del tempo a me stessa. Preparare un pasto, tosare un pezzo di prato, sedermi davanti a una tazza di tè e contemplare il cielo: mi basta questo per essere felice.

Nel suo pantheon spirituale ha inserito Nastassia Kinski. Perché?
L’avevo scoperta nell’84 in Maria’s Lovers di Konchalovsky, poi ho visto tutti i suoi film. Per me è la rappresentazione sublime della donna e dell’attrice: un ideale che non ho nemmeno provato a imitare. In Tess (1979) di Polanski, è trionfale: ha qualcosa di magnifico e, insieme, di fragile. Con la sua dimensione tragica, la sua infanza difficile, in frantumi, ha nutrito la mia inclinazione al romanticismo nero.

Ha paure, frustrazioni?
Quelle che hanno gli attori: l’invecchiamento, la paura di non essere al proprio posto, sentire come un obbligo quello di entrare nel film giusto. Per molto tempo, la mia paura è stata di non essere vista come sono, di non essere notata. Sono stata a lungo abitata dalla malinconia, fin da bambina. Ora credo d’aver esaurito ogni quota di malinconia residua. Forse vanno accettate le frustrazioni, occorre impastarle come il pane. E, quando si è soli, una bella camomilla, per non rimanere svegli fino all’alba. Odio le albe, sono come i vampiri, devo rientrare prima che s’alzi il giorno, quel filo atroce, fatto di freddo più che di luce. Non c’è da sorprendersi che tanti attori diventino alcolizzati. Una volta fuori dalla scena, chi ha voglia di andarsene subito a dormire? E per gli uomini è peggio che per le donne. Credo sia stato Gérard Depardieu a sentenziare: «Un’attrice è un po’ più di una donna, un attore è un po’ meno di un uomo».

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