Di Emmanuel Carrère in quanto scrittore, in Italia nei giorni scorsi per presentare il suo nuovo romanzo Il Regno appena uscito per Adelphi, sappiamo pressoché tutto. Meno nota invece è la sua passione per il cinema, così come la sua attività di regista. Il festival di Locarno L’immagine e la parola (19-22 marzo) gli ha chiesto di comporre un programma fatto di proiezioni e incontri che siano in qualche modo significative del suo immaginario.
Il cinema è stato da sempre un centro di interesse molto forte per lei. Ha pubblicato una monografia su Werner Herzog, all’inizio della sua carriera ha lavorato come critico cinematografico per la rivista Positif e ha scritto diverse sceneggiature per la televisione. Nel 2003 ha deciso di girare un suo primo film Ritorno a Kotelnich, cosa niente affatto scontata per chi scrive e si occupa di cinema, per quale motivo ha sentito il bisogno di passare dall’altra parte dello schermo? 

A dire la verità l’idea di fare un film non è nata da una volontà precisa. Nel 2000, appena pubblicato L’Avversario, mi sono trovato in un periodo abbastanza caotico della mia vita, ero completamente svuotato. Mi hanno proposto un soggetto per un reportage – la storia di un soldato ungherese fatto prigioniero in Russia e rimasto lì per 55 anni dopo la guerra, una specie di Kaspar Hauser rinchiuso in un ospedale psichiatrico in un paesino a 800 km da Mosca – e ho accettato. Il reportage non sarebbe stato qualcosa di scritto, ma un breve documentario per una trasmissione televisiva. È stato così che sono partito per Kotelnich con un cameraman e un fonico per un paio di settimane e ho scoperto che lavorare in équipe – per me da sempre abituato alla solitudine della scrittura – mi piaceva moltissimo. Nella vita degli abitanti di Kotelnich c’era qualcosa che mi attirava, qualcosa di non ben definito, ma che mi era immediatamente sembrato importante cogliere, una sorta di «materiale romanzesco».

La cosa che ho trovato in Ritorno a Kotelnich più toccante è la sua voce. Ci sono ampie sezioni in cui lei parla di fatti estremamente intimi, personali, e le immagini scorrono come se fossero un puro e semplice accompagnamento alla parola. Che funzione ha per lei l’immagine? 

Anche se da sempre sono un grande amante del cinema, non credo di essere una persona profondamente visuale e non credo neppure che la mia scrittura sia troppo visiva, descrittiva. Durante le riprese a Kotelnich ho deciso di non controllare l’immagine. Fin dall’inizio ho lasciato che il mio cameraman si occupasse in tutto e per tutto delle riprese, che decidesse lui cosa e come filmare. Il mio compito era quello di creare situazioni, decidere dove andare e chi incontrare, ma riguardo al risultato concreto sulla pellicola volevo in un certo senso poter disporre di immagini di cui allo stesso tempo non ero responsabile e che non mi appartenevano. In questo film c’è una specie di rinuncia al controllo. Il controllo, la mia parte ordinatrice interviene soltanto durante il montaggio, una volta che tutti gli elementi cinematografici sono già stati prodotti. Un discorso simile si potrebbe fare anche per la scrittura, più vado avanti e più mi accorgo che sulla pagina lascio che le cose accadano, cerco di esercitare il minor controllo, la minor censura possibile.

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Nel 2005 ha realizzato un secondo film, «L’amore sospetto», trasposizione cinematografica del suo romanzo «Baffi». Perché la scelta di un testo letterario? E quali problemi ha comportato portare sullo schermo un testo così ambiguo, tutto giocato sul confine sottile tra la realtà e la sua distorsione percettiva? 

Tanto sono profondamente attaccato a Ritorno a Kotelnich, quanto L’amore sospetto non ha più di tanta importanza per me. Certo, sono contento di averlo fatto, ma non è il genere di cinema che preferisco. L’esperienza di Ritorno a Kotelnich era stata talmente entusiasmante per tutte le persone che vi avevano preso parte che insieme alla produttrice del film, Anne-Dominique Toussaint, abbiamo deciso di ripetere l’esperimento: questa volta si sarebbe trattato di una fiction. Fare un film vero e proprio è sempre stato il mio sogno di adolescente e all’improvviso mi veniva offerto dal destino questo regalo inaspettato. L’unico problema è che non avevo alcuna idea su che cosa volessi filmare. Mi è venuto in mente che all’uscita di Baffi, in parecchi avevano tentato una trasposizione cinematografica del libro senza riuscirci è mi è sembrato abbastanza naturale cercare di provarci anche io. In fondo i diritti del libro erano miei, mia la storia, era un po’ come giocare in casa. Ben presto però, durante le riprese, ci siamo trovati di fronte a un ostacolo non da poco. L’immagine necessariamente «autentifica» le cose. Al cinema ci sono momenti in cui siamo obbligati a mostrare, a fare vedere la realtà. Cosa che per quanto riguarda una storia come quella di Baffi, in cui ogni cosa può essere anche il suo contrario, si è rivelata estremamente complessa da realizzare cinematograficamente. È forse per questo che alla fine il film non mi ha convinto più di tanto, e se gli sono grato è solo per un particolare tecnico. Il libro è scritto interamente dal punto di vista del personaggio maschile e giocato su minime sottigliezze di tipo psicologico, cosa che mi ha imposto un estremo rigore nella messa in scena e mi ha fortunatamente evitato di cadere in tutti quegli eccessi, quella magniloquenza di inquadrature barocche tipica di chi è alle prime armi dietro una telecamera.

«L’amore sospetto» è una riproposizione del romanzo estremamente fedele tranne che per un unico elemento: il finale è tragico nel libro e di segno diametralmente opposto nel film. 

La questione del finale cambiato riguarda due diversi fattori. Il primo di ordine pratico. Letteralmente non sapevo come poter filmare il suicidio del protagonista senza che venisse fuori una sorta di ridicola scena granguignolesca. E neppure si poteva realizzare il suicidio attraverso un’ellissi, qualcosa di allusivo. Nel libro è una scena molto forte, molto violenta, risulta davvero impossibile edulcorarla. C’è un’altra ragione però, più profonda: quando ho girato il film avevo vent’anni di più e in realtà non avevo più voglia di raccontare una spirale di follia e di disperazione, ma mi interessava rappresentare la storia di una coppia e il modo in cui, malgrado tutto, arriva a uscire da una crisi, da un disaccordo assoluto sulla realtà. Alla fine del film entrambi i protagonisti sanno che da quel momento in poi la loro vita si reggerà su un compromesso, che il terreno è minato e fragilissimo, ma che ciononostante è stata loro offerta una soluzione per rimanere in piedi. O meglio, lui ha coscienza di tutto questo, perché di lei non sappiamo nulla, la sua logica rimane per noi del tutto opaca. Nel film ho voluto dare una seconda chance al protagonista, perché in un certo senso ho sentito il bisogno di dare una seconda chance alla mia vita.