Il fatto che sia morta nel sonno mi rasserena. Chissà cosa stava sognando, spero qualcosa di bello, non l’incubo ricorrente. Una morte dolcissima. Quella che ognuno di noi si augura per i suoi cari e per sé stesso. Pensavo stamattina che non è stata una madre (non più di sei mesi), non è stata nonna né bisnonna, nonostante le caratteristiche della grande età ne facessero un modello esemplare (senza esserlo). Emma Morano, 117 anni compiuti il 29 novembre scorso, folle non era. Femmina sì, forte e volitiva, sicura delle sue scelte, orgogliosa, positiva. Innamorata, una sola volta nella vita, di un ragazzo partito per la prima guerra e mai più tornato. Sposa senza amore, subisce maltrattamenti per decenza. Dopo il lutto filiale trova dentro di sé la forza proto-femminista (assai in anticipo sui tempi, era il 1938) per buttare il marito fuori di casa e separarsi informalmente. L’ho incontrata, la prima volta, una mattina di ottobre del 2015 per un progetto documentario mai andato a termine: viveva da sola (due persone, la premurosa Rosi, moglie di un nipote, e una vicina del piano di sopra si alternavano per prepararle i pasti), mangiava voracemente portando alla bocca la sua ciotolina un etto di carne cruda condita, rispondeva a tono alle domande più ficcanti.

Uno scialletto patchwork – forse sferruzzato decine di anni prima da lei – le scaldava le spalle mentre stava in poltrona davanti alla finestra, sotto i piedi una stufetta a placarle il gelo che le colpiva le membra per via della magrezza (e forse dell’età), alle spalle il letto singolo su cui si spostava due volte al giorno, per il pisolino postprandiale e per il sonno notturno. Ci colse di sorpresa raccontandoci che, spesso, sognava di camminare nel bosco da sola nel timore di essere violentata. Durante la narrazione riviveva il sogno così vividamente che soffriva nell’esplicitarlo in parole. Una cosa straziante: a quasi 115 anni soffriva delle medesime paure di una ragazzina ingenua. Immagino che, da quando si ritrovò sola in poi, debba esser stata malgiudicata una facile, indipendente, promiscua. Che possa davvero aver subito pressioni sessuali, molestie, allusioni in un paese piccolo come Pallanza sul lago Maggiore. Ricordava ancora le maldicenze, i consigli generosi di un dirimpettaio che la sentiva urlare di dolore (che la convinsero ad allontanare il brutale marito), la competizione da parte di donne invidiose, magari intrappolate in matrimoni infelici quanto il suo ma senza il coraggio di uscirne.

Pochi mesi fa venni a sapere che il suo grande amore, il giovane soldato reputato morto, alla fine della guerra era tornato a cercarla senza trovarla, perché si era trasferita. Mi sono chiesta, scoprendolo, chi si fosse frapposto tra loro, se qualche parente geloso o solo il fato: avrebbero potuto riunirsi forse, forse la sua vita sarebbe stata più felice, in barba a chi la volle così longeva soprattutto a causa del suo stare sola. Con il mio amico del documentario non andato in porto, per qualche settimana, ci domandammo se andare a dirglielo. Soprattutto io spingevo per questa opzione. Ma gli scrupoli di farla arrabbiare o soffrire o addirittura indurle un colpo al cuore vinsero sul mio eccessivo romanticismo. Ora mi dispiace. Mi arrovello su cosa avrebbe pensato, cosa avrebbe dichiarato, forse superbamente avrebbe fatto finta di niente, fingendo di averlo dimenticato. Emma – l’ultima persona vivente, fino a quattro giorni fa, nata nell’Ottocento – amava ballare. Questo giro di valzer lo faranno da qualche parte ultraterrena, in un mondo parallelo, guardandoci e ridendo. Oppure vivranno felici come formichine operose in un’altra reincarnazione. Oppure niente, ormai entrambi cenere, ossa e granelli di polvere su cui soffiare. E io non posso far altro che pensarla e scriverne.

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