Un palco nudo davanti alla facciata di pietra bianca e assai délabré di una vecchia villa, che le luci dipingono in una tonalità un po’ acida. Le nere ferite simmetriche delle finestre con le imposte chiuse, sormontate da un fregio modellato come sopracciglia inarcate. I balconcini di ferro battuto, ormai inservibili. Qui, nella periferia di Palermo che un tempo era campagna e ora è un orrendo ammasso di palazzacci, Emma Dante ha presentato il «movimento n.1» della sua Odissea. E viene spontaneo interrogarsi come sarà quando invece, a settembre, lo spettacolo andrà in scena a Vicenza sull’intangibile palcoscenico del teatro Olimpico, di fronte alla prospettica fuga di vie e palazzi e cieli artificiali che si apre nella scenografia lignea disegnata da Vincenzo Scamozzi (l’artista palermitana ha ancora per quest’anno la direzione artistica dell’ormai tradizionale ciclo di «spettacoli classici» che ha per cornice la cinquecentesca architettura palladiana). Quanto cioè l’ambientazione in un diverso paesaggio può orientare lo sguardo di chi guarda.

Lo spettacolo è in realtà uno «studio liberamente tratto dal poema di Omero» con gli allievi attori del primo anno della Scuola dei mestieri dello spettacolo del teatro Biondo – e che bel suono ha quella parola «mestieri», alla faccia dei ridenti imbecilli che farfugliano di «jobs act» in una lingua che nemmeno sanno parlare. Sono 22, vestiti tutti di bianco e di nero quando avanzano marciando sul palco e si dispongono sui lati, come a contenere lo spazio. Però con un ribaltamento cromatico che provoca una specularità visiva fra l’alto e il basso: sono nere le gonne delle ragazze e le canotte dei ragazzi.

Come agli albori della tragedia antica, è quel coro che genera i personaggi, talora con l’aiuto dello spirito della musica evocato da una canzone suonata alla chitarra. Ecco che quasi senza che ce ne accorgiamo è spuntato un abito rosso più elegante, e non ci vuol molto a scoprire che si tratta della dea Atena venuta a perorare la causa di Odisseo di fronte a uno Zeus un po’ zotico che vorrebbe far mostra della sua forza fisica con numeri di culturismo. Allo stesso modo sarà un rapido cambio d’abito, a vista, a dare corpo e identità a un Telemaco riccioluto e un po’ bambinone, a un’Euriclea dai modi spicci e maneschi, a una luttuosa Penelope che si intuisce giovane e bella sotto il velo nero, alla focosa Calipso che proprio non vorrebbe lasciarlo andare quel mortale di cui si è innamorata, se non arrivasse Ermete con gli ordini del principale. Prima che siano di nuovo inghiottiti dal coro.
Del lungo viaggio omerico Emma Dante ha ritagliato un tratto breve. Siamo a Itaca, dove i Proci che aspirano alla mano della regina hanno intanto preso possesso della casa. Prima del ritorno dell’eroe, ancora trattenuto nel paradiso della ninfa Calipso. Eccoli infatti quei ragazzotti strafottenti che si fanno forti del loro numero per umiliare Telemaco e mettere alle strette Penelope che disfa di notte la tela tessuta di giorno, sperando così di rinviare la scelta. Basta con quel telaio. Intanto ruttano. Schiamazzano. Sfogano collettivamente l’eros insoddisfatto. Non sono così male, dicono però le ancelle che pure si sono stancate di quel fai e disfa.

A volerci mettere un po’ di filologia alla buona, siamo un passo oltre quell’Io, Nessuno e Polifemo che l’anno scorso, proprio a Vicenza, aveva segnato il primo incontro di Emma Dante con l’Odissea. Ma se là, nell’«intervista impossibile» al ciclope trapiantato dirimpetto ai Campi Flegrei, si poteva percepire quasi il prodursi di un dialogo filosofico sul mito, tenuto a distanza dal tragico, per quanto intriso di carnalità, qui siamo sul versante di una teatralità più popolare e immediata. Dove il linguaggio dei corpi viene in primo piano, anche con i suoi elementi di riconoscibilità (un modo di camminare avanti e indietro o atteggiare la faccia). Non per caso l’artefice rispolvera la lingua siciliana dei suoi lavori più belli, lingua materna o matrigna che bene si adatta alla visibile dominante femminile del lavoro.

Corale resta il respiro dello spettacolo. Il suo senso, le sue immagini più belle. Bellissimo è quel veloce svolgersi di un lungo velo nero che passa di mano in mano zigzagando fra i due lati della scena e va a cadere sul corpo disteso della regina come un tumulo funebre; e viene poi riavvolto altrettanto velocemente, a replicare l’idea di quella tela che si fa e si disfa. Il movimento n. 1 si arresta sulla soglia dell’ultimo tratto del nostos. L’addio a Calipso, fra gli spruzzi d’acqua che si alzano dalla bacinella dove si tuffa con violenza il viso. Mare e lacrime che si confondono. Non resta che attendere la prossima tappa. La voce di Teresa Salgueiro accompagna il gruppo che sfila a passo verso l’uscita.