Visioni

Emma Dante, con «Misericordia» volevo mostrare un’umanità ferita

Emma Dante, con «Misericordia» volevo mostrare un’umanità feritaEmma Dante – foto Marie Gioanni

Intervista Conversazione con la regista, il suo terzo film, ispirato all'omonimo spettacolo, si è affermato come una delle opere migliori dell'anno cinematografico. La violenza contro le donne, la famiglia che nasce dalla cura, il corpo, la natura

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

In una comunità ai margini della società, immersa in una natura favolosa e potente, tre donne disgraziate si prendono cura di Arturo frutto della violenza maschile, archetipo della bellezza non conforme, nato storto, diverso, straordinario nella sua danza folle che è anche la sua malattia. Emma Dante per il suo nuovo film, Misericordia, si è rivolta ancora una volta al proprio teatro, affidando sullo schermo l’omonimo spettacolo a una fucina di attori portentosi. Una favola post moderna e dolorosamente contemporanea che allarga la visione «prendendo distanza dalla scena», accarezza e artaudianamente trafigge lo spettatore: ci parla di noi, del nostro presente agghiacciante, disseminato di poesia nascosta nei luoghi più desueti, dove non siamo (più) abituati a guardare.
Misericordia si è rivelato una delle sorprese cinematografiche dell’anno. Ne abbiamo parlato con la regista, che intanto e sta lavorando alla sua nuova regia teatrale Re Chicchinella, «un’apologia sul potere» che chiude la trilogia su Giovanbattista Basile.

Una delle differenze con lo spettacolo è l’ambientazione. La natura nel film è elemento/ personaggio preponderante, in contrasto con la «munnezza» onnipresente.

Ho scritto il film insieme a Giorgio Vasta e Elena Stancanelli, due sguardi in più rispetto al mio solitario del teatro. La storia è la stessa, ma c’è un mondo che nel teatro manca: la comunità, la natura che in scena era un ventre oscuro con pochissimi elementi. Qui è volutamente, sfacciatamente presente. All’inizio avrei ambientato questa storia in una situazione urbana, di degrado periferico, nella criminalità delle borgate. Poi ho pensato: se questo degrado entrasse in contatto con la bellezza, la meraviglia che un quartiere di una periferia non ha? Ogni anno vado nella Riserva di Monte Cofano, ho deciso di costruire il borgo di questi disperati proprio lì, tra la falesia e il mare, dove la montagna davvero perde pezzi. È una montagna generatrice, la vera madre di questi ultimi, infatti quando c’è violenza, si arrabbia.

L’umanità che hai deciso di mostrare ha una fisicità esagerata, sovraesposta.

Sì, infatti nel film ci sono due momenti in cui questi corpi feriti guardano in macchina: la carrellata delle donne e l’altra in cui gli uomini aspettano di andare con Anna. Ho chiesto loro di guardare il pubblico per dire «siamo qui, sentiamo il vostro sguardo». C’è una volontà forse anche fastidiosa, un film così è divisivo perché ha questo desiderio di essere nudo e crudo, mostrare le pieghe, l’ordito di quest’umanità, soprattutto quella delle donne.

Nel libretto di sala di «Misericordia» citavi Sanguineti: «Femmina penso se penso l’umano». Queste donne lacerate accolgono Arturo con l’amore di madre.

Nei luoghi più impensati, laddove non c’è educazione, cultura, accade la cosa più naturale al mondo: la famiglia si forma perché c’è qualcuno che si prende cura di qualcun altro. Non serve avere lo stesso sangue, rispettare ruoli precostituiti. È una formazione che fa del bene. Per adottare bisogna essere in due, sposati da sette anni, altrimenti i bambini restano nelle case famiglia. Lo trovo aberrante. Io che ho adottato so quanti bambini e bambine restano parcheggiati. È un discorso delicato che andrebbe fatto sempre, il mio chiodo fisso.

Un altro dei tuoi nodi ritornanti è il fatto che le donne vengono ammazzate, violentate dagli uomini, senza tregua.

Il film si apre con un pestaggio. Alcuni uomini dopo averlo visto l’hanno considerata una scena troppo violenta. Io e la mia produttrice Marica Stocchi ci abbiamo riflettuto. Siamo entrambe molto in ascolto, volevamo che questa storia arrivasse al pubblico. Abbiamo provato a toglierla, iniziava con questa favola: «c’era una volta un bambino…», ma non aveva senso. Arturo è la conseguenza di una violenza. Si diceva che è figlio di una donna uccisa a calci e pugni: mostrarlo è un’altra cosa. Se non mostriamo quei calci e quei pugni che arrivano alla testa di questo bambino che nasce difettoso, non riesce a parlare, ed è talmente traumatizzato da quella violenza che la sua vita va in un’altra direzione, se non facciamo vedere questo, Arturo è una figurina che intrattiene il pubblico con le sue scorribande. Lo dobbiamo dire che quella creatura è figlio di una violenza, non ce ne dobbiamo dimenticare. Purtroppo questo film ha a che fare con la violenza contro le donne. Non dovrebbe essere più un tema, invece è un tema ed è un tema molto grave che non si risolve.

Oggi sembra che la povertà sia uno scandalo. Cos’è invece la «misericordia»?

È un sentimento che non abbiamo più. Si è estinto, volatilizzato. Non c’entra con la religione. In alcune presentazioni qualcuno chiedeva: «Esistono ancora, veramente, queste comunità di disperati?». Come a dire ti sei inventata tutto di sana pianta. Certo forse non esiste una comunità così fetida che vive in un posto così bello, certo questa è una favola, ma state sicuri – e non so se questo vi consola – che questa miseria esiste, questa promiscuità esiste ed esiste anche questa mercificazione. La gente mangia mentre guarda le immagini della guerra, sta lì seduta sulla sua poltroncina e dice «che mischini!», e nel frattempo finisce l’insalata. La misericordia ha che fare con la condivisione profonda, con l’assenza totale del giudizio: quando vedo un disperato non mi viene di giudicarlo, mi devo sentire io stessa disperata come lui. La misericordia è un sentimento che mi deve riguardare, se mi riguarda allora provo dolore com’è giusto che sia, ma non ho neanche più le parole per manifestare questo dolore.

Questo è il tuo terzo film. Come ti trovi nel passaggio tra teatro e cinema?

Non ne farò più (ride,ndr). È molto faticoso fare un film come è anche molto faticoso fare un’opera. Quando faccio i miei spettacoli con la mia compagnia mi sento più sicura: c’è il tempo dalla nostra parte. Studiamo, facciamo laboratori, riprendiamo a fare le prove, affrontiamo diverse tappe. Nel cinema devi essere dentro meccanismi legati al valore monetario del tempo, se giri devi rispettare quelle settimane, non puoi andare oltre, il girato è quello che ti porti a casa. Io sono una che vuole stare sempre con le mani in pasta, non essendo mai veramente soddisfatta, vorrei tornare indietro, cambiare delle cose. Col teatro lo posso fare, col cinema no. Sono una teatrante, una che vive nelle catacombe, nel regno dei morti. Tutta questa luce, questa verità del cinema un po’ mi uccide.

Sei partita dal corpo danzante di Simone Zambelli, sono nati uno spettacolo e un film.

Simone è un caso a parte. Nello spettacolo il suo corpo danzante, la sua malattia, hanno più spazio. Nel film bisognava mantenere la calma. Abbiamo lavorato tantissimo sulla sottrazione della danza, lasciare questo corpo disarticolato e sbilenco che però sa fare tanti giri. Non sappiamo bene di cosa è malato Arturo, sappiamo che ha un grave ritardo psicomotorio, nel linguaggio. Il suo corpo è quasi cristologico, martoriato. Mi piaceva l’idea di lavorare sugli archetipi, sono andata nella direzione di una favola con un’iconografia ben precisa – il film si apre con un bambino in una nicchia con una pecorella. Sono partita dal corpo di Simone dopo aver visto un ragazzo autistico in un ospedale la mattina prima di vedere il suo spettacolo. Girava su se stesso, vorticosamente, senza fermarsi mai. Rideva, guardava il soffitto. Mi ha talmente sconvolta che quando la sera ho visto Simone danzare e ho ritrovato quella stessa follia nel movimento, mi sono detta: questo ragazzo autistico che mi ha fatto vedere le stelle deve stare con me per un po’. È stato un giro. Ho chiamato Simone. È nato Arturo, è nata la misericordia, la voglia di raccontare la mia maternità, le donne, la violenza. È un film che gira su se stesso, come quel derviscio che ho incontrato in ospedale: uguale, identico, non arriva da nessuna parte.

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