Emma Dante è spigolosa e immaginifica come il suo universo artistico fatto di ombre, violenza, donne e legami familiari ancestrali che parlano la lingua oscura e mitica del dialetto antico della sua Palermo. L’autrice e regista siciliana si racconta in occasione del debutto di Misericordia, nuova coproduzione della sua Compagnia Sud Costa Occidentale con il Piccolo Teatro di Milano (dove sarà in scena da martedì al 16 febbraio). «Ci sono tre donne che vivono in condizioni terribili, eppure decidono di prendere con sé un ragazzino ’difettoso’, nato legnificato, con le giunture rigide, per le botte del padre che uccide la madre a calci in gestazione. Lo spettacolo è l’ammorbidirsi di questa rigidità, il legno che diventa carne grazie a queste tre donne, madri senza esserlo» dice la regista.

Da cosa è partita?
In testa avevo l’immagine di un ragazzino autistico che avevo visto in una corsia di ospedale: girava su se stesso, e rideva. Questo giro forsennato della vita è stata la scintilla. Volevo raccontare una famiglia che non ha legami di sangue. Ma non è uno spettacolo sull’autismo, o sulle donne, o sulla maternità. Non è uno spettacolo a tema: è un concetto che mi spaventa, mi fa orrore. Ti imprigioni. Invece ci metti tante cose, poi è lo spettatore a decidere cosa prendere. Mi sono stancata che mi si leghi sempre alle donne, al sud, a Palermo.

Però ricorrono nel suo mondo creativo, è innegabile.
Per me è naturale parlare quel dialetto e mettere al centro le donne e i problemi che hanno avuto e hanno in ogni ambito, come per un uomo è naturale mettere al centro l’universo maschile. Mi dà fastidio che su una artista donna ci debba sempre essere la puntualizzazione sul femminile. Ho sempre pensato che un’artista debba emanciparsi dalle definizioni di genere, il corpo dell’arte è ermafrodita, non ha compiutezza, è universale, aperto a tutto a 360 gradi. Mi piacerebbe fosse naturale, ma finché lo consideriamo innaturale non lo diventerà mai.

Si considera femminista?
No. Mi considero un’artista con una voce sua forte autoriale che si occupa di tirare fuori voci autoriali forti soprattutto femminili. Parlo di maternità, sopraffazione, prepotenza maschile, famiglia matriarcale. Però non è una cosa razionale, non sono politicamente fissata.

Un cast tutto al femminile sarà anche nel suo prossimo film, «Le sorelle Macaluso». A che punto è?
Sto ultimando il montaggio, sarà pronto in aprile. L’ho scritto con Giorgio Vasta e Elena Stancanelli, è tratto dalla pièce teatrale ma è completamente diverso. Racchiude però i temi principali dello spettacolo, la convivenza tra i vivi e i morti, questa sorellanza che rimane solida fino alla fine della vita, compresa la morte. Queste sorelle che non si separano mai, abitano la casa anche dopo la morte. Ma non è un film sui fantasmi.

Oltre a Donatella Finocchiaro, le attrici sono le stesse della pièce?
Solo Serena Barone. E ci sono tre cast, perché il film racconta tre età delle cinque sorelle: bambine, adulte, poi anziane. Nelle varie fasi se ne perde sempre una, che muore e rimane bloccata in quell’età: la bambina rimane tutto il film, la seconda sorella morta resta adulta anche quando le altre tre sono anziane. Il gioco è raccontare questa giostra temporale, ma senza ricorrere al trucco posticcio. Non sopporto quando un attore giovane viene invecchiato. Non ho nemmeno cercato attrici che si somigliassero nei tratti, ho lavorato sulla gestualità. Preferisco raccontare il tempo che deforma, modifica, cambia e trasforma i corpi, perché è quello che accade nella vita. A quindici anni e a sessanta o settanta noi siamo due persone completamente diverse. E questa cosa al cinema si può raccontare con grande libertà.

Spiazzante. L’arte lo deve essere?
Nonostante i tempi ci obblighino ad accontentare il pubblico e addomesticarlo, mi ostino a tenerlo in pizzo alla sedia, vivo e attivo. A scuoterlo, a dargli un pizzicotto.