Il titolo è A Quiet Passion, ma avrebbe potuto anche essere «A Quiet Rebellion». La ribellione quieta di Emily Dickinson, protagonista del biopic di Terence Davies che torna, a sedici anni da La casa della gioia a immedesimarsi nello sguardo di un personaggio femminile. Ancora memoria, ancora famiglia e tormenti esistenziali indagati con coerenza di pensiero e di forma dal regista settantaduenne, in una sorta di transfert con una donna solitaria, come si evince fin dalla prima emblematica sequenza, che racchiude il senso di un’intera «vita minore» segnata dall’intransigenza, dal rigore morale, ma anche da una spinta verso l’emancipazione decisamente fuori dagli schemi per l’epoca.

 

Il racconto  comincia in collegio. Un collegio religioso dell’America puritana dell’Ottocento. Ambiente disadorno, luce claustrale, sopra alla figura della rigida istitutrice si staglia un crocifisso. Campo e controcampo. Da una parte l’istituzione, dall’altra un gruppo di giovani donne chiamate a una scelta: a destra le timorate, che scelgono di abbracciare la salvezza nella parola di Dio; a sinistra quelle che sperano un giorno di trovarla. E al centro Emily. Sola. Inclassificabile. Inesorabilmente destinata a una vita da outsider.

 

C’è qualcosa di contraddittorio nella figura di Emily Dickinson e nella sua visione a tratti dicotomica dell’esistenza, che si traduce proprio in quella condizione di isolamento che il regista esemplarmente sottolinea nelle prime inquadrature. Una condizione autoinflitta in contrasto con l’immagine «rivoluzionaria» di una giovane donna che in tempi di evangelizzazione e di pensiero cristiano (le parole ricorrenti sono Dio, preghiera, anima, peccato, inferno), quando la possibilità di scelta spaziava al massimo tra il matrimonio e la depressione (non sempre in antitesi), non si mostra remissiva, non si piega a una fede religiosa che anzi rivendica di non possedere, né cede al comportamento pio che si converrebbe a una signora del suo rango. Dickinson (che ha il volto di Cynthia Nixon, prossimamente candidata alle primarie dem per la corsa al posto di governatore di New York) è, a tutti gli effetti, una borghese progressista. Si dimostra femminista ante-litteram, aspira a un amore in cui uomo e donna si rapportino alla pari, vagheggia un’uguaglianza tra i sessi allora impensabile.

 

Eppure, alla morte del padre, sceglie la via della clausura, si chiude in camera di bianco vestita, nella casa di famiglia, lasciando ostinatamente la vita e il caos del mondo al di là di una candida tenda di pizzo fino al sopraggiungere della morte, che la coglie nel suo letto per una nefrite a soli 55 anni. Perché una donna che legge Cime Tempestose e rifiuta l’ipocrisia della società opponendosi alla «disubbidienza in segreto» decide di chiudersi in una gabbia? Perché il suo rigore morale si inacerba al punto da prendere la deriva del moralismo bigotto? Forse perché anziché omologarsi, Dickinson intraprende appunto la via di una «quieta ribellione», che si radicalizza in un contro-pensiero che passa attraverso la parola (la poesia) e il corpo (negato), rassegnata all’idea di un’esistenza solitaria e all’insuccesso dei suoi versi. Il suo è sì un pensiero laico e terreno, ma è tuttavia privato (non privo) di ogni sensualità. Davies ne asseconda l’austerità. La forma rigorosa, la scrittura in tre atti, i chiaro-scuri, la macchina da presa inchiodata a terra, sono espressione di uno stato d’animo comunque avvolto da un mistero insondabile. I titoli di coda che scorrono sulle note dissonanti di The Unanswered Question (del compositore Charles Ives, i cui brani musicali, come i versi di Emily Dickinson, rimasero ignorati finché fu in vita) sono forse l’unica risposta possibile.