Ospite domani al BilBolBul festival, di cui ha disegnato la bella, pazza locandina, Émilie Gleason affronta nel suo libro di esordio un tema molto complesso, una scelta dettata da ragioni personali, da un’urgenza privata. Leggendo Ted, un tipo strano (Canicola) si è travolti da disegni assolutamente liberi, a tratti felicemente caotici, scombinati, che ci portano dritti nelle sensazioni e nei pensieri del protagonista, obbligandoci a valutare le cose quotidiane- prendere l’autobus o la metro, andare a lavoro, conoscersi, piacersi- in un’ottica totalmente diversa. Il libro della Gleason aggiunge-forse involontariamente, ma proprio per questo con forza e stile da vendere- un tassello importante sulla vita di chi soffre di Sindrome di Asperger. Ne abbiamo parlato con lei.

Émilie, la storia di Ted è ispirata da una vicenda biografica. Quando hai deciso di parlare della Sindrome di Asperger e come hai affrontato questo argomento?
Mancava un mese alla discussione della mia tesi di Laurea alla scuola d’arte di Strasburgo e l’unico fumetto che avessi mai fatto e pubblicato parlava di un Mickey Mouse scoreggione. Avevamo bisogno di una storia forte da presentare alla commissione e a 60 km da me la mia famiglia stava vivendo un incubo. Mia madre mi chiamava solo per piangere, il divorzio aleggiava nell’aria, il mio fratellino l’avrebbero spedito da me per evitare la crisi e io mi sentivo del tutto inutile, perché ero lontana e stavo cercando di guadagnarmi da vivere coi fumetti. L’idea di Ted è nata per far ridere i miei genitori della situazione che avevano vissuto.

Hai scelto spontaneamente una narrazione ironica perché pensi che il riso possa aiutare il lettore a guardare la malattia mentale con altri occhi? Credi che invece si tratti piuttosto di una possibilità di risposta agli aspetti drammatici della malattia?
Il riso è sempre la miglior cura, sì. Penso che ogni argomento pesante possa essere affrontato con umorismo, se uno riesce bene a dosare gli ingredienti: Ted è coloratissimo e pieno di scherzi, ma il lettore ci si affeziona e potrebbe anche commuoversi. Per quanto mi riguarda non sarei stata capace di raccontarlo dal mio punto di vista, o in modo realistico, perché al tempo non lo capivo ed ero piena di rabbia verso di lui.

Ted affronta situazioni in cui ognuno di noi potrebbe trovarsi facilmente, ma la sua mente non è organizzata per reagire correttamente…in fondo cosa significa correttamente? cosa significa per te come sorella e come artista?
Capire Ted è stata per me una specie di chiamata alle armi. Prima di disegnare ho lavorato molto per vedere il mondo dagli occhi di mio fratello. Tutto è iniziato con un episodio quasi insignificante: una volta non mise il tappo alla sua bottiglietta di plastica perché era vuota. Mio padre lo forzò a farlo e lui dette di matto e quella fu in assoluto la prima volta che mi trovai a difenderlo, dissi «ha ragione, non c’è acqua nella bottiglia, il tappo è inutile». Poco a poco puoi fare questo esercizio con ogni cosa che ti circonda. Ted mi ha insegnato l’onestà, l’umiltà e l’empatia.

I bisogni e gli impulsi corporei hanno un ruolo notevole nella costruzione del personaggio. Ti hanno aiutato nella costruzione della trama o hai lavorato mettendo insieme degli episodi?
Non saprei…ma in quel momento, essendo il mio primo fumetto, non avevo regole, come quella di fare uno storyboard; avevo un’idea fluttuante di capitolo-ognuno ha un tema: famiglia, lavoro, amore, medici, e una lista di aneddoti che mi avevano colpito, che ho disegnato spontaneamente incorporandoli a una situazione (il tentato suicidio, la pipì sotto il materasso, i piedi che diventano grandi etc.)

Il movimento è una chiave grafica importante nel tuo lavoro: le lunghissime gambe di Ted non consentono l’uso di classiche vignette. Talvolta l’eccesso di movimento rende la composizione dell’immagine volutamente confusa e questo mi ha fatto pensare alla lotta che si affronta nella realtà per relazionarsi con qualcuno che amiamo ma che non può capirci. Sono sulla strada giusta?
Sì, è più o meno così. Odiavo le vignette al tempo perché riducevano il mio spazio per disegnare. C’è un detto in francese «mettere qualcuno in una casella» che è esattamente l’argomento del mio fumetto, poiché Ted non entra nella casella dei neurotipici nel quale volevamo farlo rientrare. Quindi ho disegnato una linea e ci ho messo sopra l’azione. Il mio riferimento è stata l’animazione più che il fumetto, non leggevo molto al tempo (mi riferisco a 4 anni fa), ma ho guardato così tanta Tv e credo che il movimento nei miei disegni sia entrato così.

La comunicazione è una questione centrale nel tuo lavoro e anche nei disturbi dello spettro autistico. Il tuo libro restituisce tutte le parole e i pensieri che spesso le persone colpite spesso non riescono a condividere con gli altri. Ho letto il libro come un omaggio, una specie di restituzione. Come hai reso il bisogno di comunicare nel testo verbale e grafico?
Trovo che il mio libro sia importante: sentivo che dovevo raccontare la storia di mio fratello proprio perché lui non poteva, non ha mai espresso niente, è sempre stato impossibile capire cosa pensasse, quindi il modo più semplice era interpretarlo attraverso il corpo, poiché certi Asperger non capiscono le emozioni, sono stata ispirata dalle lezioni di teatro a cui mio fratello partecipava, nelle quali doveva semplicemente cercare di imitare la tristezza o la rabbia. Questo per esempio è raccontato nel fumetto quando la sorella gli urla in faccia e lui è in imbarazzo perché non sa che emozione interpretare, gli smiley sono un buon modo per rappresentarlo. Poi la sfida è diventata quella di far capire ai lettori le emozioni di Ted attraverso le sue gambe e braccia. Il volume delle sue spalle mostra un senso di disagio e ansietà, le sue mani sono sempre contratte.

Cogli nel segno di quelle che sono molte manie e peculiarità dei disturbi dello spettro autistico e il libro è in qualche modo didattico.
Non sono una persona «didattica», i miei insegnanti me lo hanno ripetuto spesso. Da una parte volevo essere la prima a parlarne, e dopo tre mesi che ho iniziato a disegnare è uscito il libro di Julie Dachez, affetta da sindrome di Asperger, nel quale lei racconta in modo molto didattico il suo quotidiano. Non ho sentito niente mentre lo leggevo, poiché non mi sono affezionata a niente, semmai mi sono sentita in colpa per come viveva. Ho capito che per fare una buona storia, spiegare la situazione non è una buona strada; al contrario devi dare al lettore lo sguardo del personaggio, ma non dirgli «guarda, questa è la mia vita ed è penosa poiché tu la giudichi in continuazione». Ted non è un fumetto sull’Asperger, ma la testimonianza della vita di mio fratello. Se poi la gente impara qualcosa, io sono doppiamente contenta.

Quindi qual è stata la ricezione del libro?

Onestamente è stata incredibile. Ho lavorato per tre anni in una piccola casa editrice e conoscevo la realtà del mercato per cui le mie aspettative erano davvero basse, sarei stata felice anche se avessi venduto 600 copie, o se fossero usciti un paio di articoli. Quindi quando ho visto lo scalpore che il libro ha suscitato, non ci credevo. Continuo a ricevere messaggi affettuosi dai lettori. E non ho ancora ricevuto nessuna critica negativa e in un certo senso, questo mi rende debole, mi spaventa di fronte al futuro…sto mentendo, qualche critica è arrivata da persone con la Sindrome di Asperger che non si riconosceva, in più il mio stile deve risultare terribile a chi non capisce l’ellissi o non apprezza i colori fluo. Ma di nuovo, non è un libro per l’Asperger, ma per le persone che non sapevano che cosa fosse questo tipo di autismo.

Hai disegnato il manifesto del BilBolBul festival, dedicato quest’anno al tema del corpo.
Come hai raggiunto questa abilità nell’esprimere le emozioni e i caratteri attraverso il disegno di un corpo?
Da studente odiavo le lezioni di disegno dal vivo, gli insegnanti mi dicevano che deformavo i modelli. Poi ho iniziato a farlo costantemente, come una firma: ingigantivo all’infinito le gambe, o le espressioni facciali, per distorcere la realtà. Vedo le persone ogni giorno della mia vita: disegnarle in modo diverso mi sembra il primo passo per creare un mondo davvero mio, colorato e sempre di corsa.