Flessibilità nel rigore. A questo risultato è giunto l’accordo tra Renzi e Merkel a Bruxelles. In realtà riguarda i soli cofinaziamenti nazionali ai fondi Ue esclusi dal conteggio del deficit e poco altro. Nulla del fiscal compact, né dell’austerità, sembra essere stato toccato. All’economista Emiliano Brancaccio chiediamo se Renzi è riuscito a trasformare il bastone del rigore nella carota dell’austerità flessibile.
«Renzi sta solo cercando di rinviare le scadenze e non si azzarda a toccare le regole – risponde Brancaccio – Durante la campagna delle primarie aveva più volte evocato la possibilità di cambiare i trattati. Ora si limita a chiedere un’austerità un po’ più “flessibile”. In sostanza, la trattativa verte su un mero rinvio di un anno o due degli obiettivi di pareggio del bilancio. Che la richiesta venga accolta è da verificare, visto che Commissione Ue ed Ecofin risultano tutt’ora ostili. Ma anche ammesso che Renzi riesca a spuntarla, otterrebbe solo un margine in più per il deficit di 0,2 punti percentuali. Una conquista risibile rispetto alla gravità della situazione».

Il premier allora torna da Bruxelles con un successo o con un’illusione?

Nel corso di questi anni abbiamo registrato una progressiva divaricazione tra le narrazioni politiche e la realtà dei fatti. Lo dimostrano gli errori sistematici commessi dalla stessa Commissione Ue sulle previsioni dell’andamento del Pil nell’Eurozona: nel caso dell’Italia sono stati anche superiori ai tre punti percentuali. La mia sensazione è che Renzi stia addirittura accentuando questo iato, anziché dare un contributo per rendere le parole della politica un po’ piu in linea con i processi reali.

La crescita è una speranza fondata per il 2014?

Per dare un’idea di quanto sia improbabile, basta notare che gli obiettivi di bilancio dell’esecutivo sono stati fissati sulla base di una crescita dello 0,8% nel 2014. Questa previsione è già smentita dagli ultimi dati. Nel momento in cui ci renderemo conto che l’andamento effettivo del Pil è peggiore del previsto, anche quel po’ di margine sul deficit chiesto da Renzi verrà bruciato.

A Bruxelles sembra essere passata l’idea che l’ammorbidimento del rigore fiscale avverrà man mano che la Commissione Ue riscontrerà il grado di avanzamento delle «riforme». Di quali riforme si tratta e quale modello sociale ed economico disegnano?

In realtà non è nemmeno detto che questa idea sia passata. Al momento c’è solo una generica dichiarazione di apertura da parte della Merkel. Ma nero su bianco abbiamo due documenti della Commissione Ue e dell’Ecofin che si muovono in direzione opposta rispetto a quanto auspicato da Renzi. Per quanto il premier chieda briciole, la trattativa per ottenerle si annuncia comunque difficile. In cambio, oltretutto, il governo farà riforme che rispondono a due tipologie. La prima è relativa all’assetto istituzionale: accrescimento ulteriore del potere dell’esecutivo in nome della decantata governabilità. È un processo che implica un’erosione ulteriore dei margini di esercizio della democrazia.

E la seconda riforma?

È una vecchia conoscenza: flessibilità del mercato del lavoro. Dopo il fallimento della dottrina della “austerità espansiva”, cioè della idea per cui l’austerità avrebbe garantito la ripresa economica, ora si punta su altre dosi di precarizzazione dei contratti di lavoro.

Nel «monito degli economisti» pubblicato sul Financial Times nel 2013, promosso con Riccardo Realfonzo, annunciavate che l’Europa sarebbe passata dall’austerità espansiva alla precarietà espansiva. Di cosa si tratta?

La previsione è confermata. Ci dicono che la nuova onda di precarizzazione del lavoro porterà crescita dell’occupazione. Ma per capire davvero dove porterà la riforma Poletti basta guardare i dati dell’Ocse e dell’Fmi: non vi è nessuna conferma della tesi per cui più precarietà determina più occupazione. Se è vero che i contratti flessibili inducono le imprese ad assumere un po’ di più nelle fasi di espansione economica, è altrettanto vero che questi contratti permettono alle imprese di distruggere quegli stessi posti di lavoro nella recessione. L’effetto netto di queste politiche è zero. Eppure il ministro Padoan, che viene dall’Ocse e conosce questi risultati, insiste con la fantasia secondo cui la precarizzazione accresce l’occupazione. Siamo di nuovo in presenza di uno scarto tra narrazione e realtà.

Se la crescita non c’è che cosa accadrà nei prossimi mille giorni del governo?

Quello che si è già verificato negli ultimi anni. Ancora una volta, rileveremo una distanza tra obiettivi e risultati, sia dal punto di vista del deficit pubblico che da quello della crescita economica e dell’occupazione. L’auspicio di Renzi, secondo il quale si può agire nell’attuale quadro istituzionale europeo per uscire dalla crisi, andrà a sbattere contro il muro dei fatti.

Sembra ormai escluso un processo di riscrittura dei trattati europei, come anche una revisione del ruolo della Bce. Quale sarà il futuro economico e sociale dell’Europa meridionale nei prossimi cinque anni?

Questi paesi hanno perso negli ultimi sei anni di crisi oltre 6 milioni di posti di lavoro. In Germania c’è stato invece un aumento di 1,5 milioni di unità. Queste divaricazioni delineano un processo di «mezzogiornificazione» europea, che riproduce su scala continentale il tremendo dualismo economico che ha condizionato i rapporti tra Nord e Sud Italia. In questo scenario prevedo nuovi successi per i movimenti reazionari e xenofobi. Temo che i risultati delle elezioni europee siano solo l’inizio di un lungo ciclo politico, in cui ci troveremo nella tenaglia di due tipologie di destre: una europeista e tecnocratica nella quale si inserisce anche l’attuale compagine che sostiene il governo italiano; l’altra ultranazionalista e potenzialmente neo-fascista, come il Fronte nazionale in Francia. Quello che più spaventa è che il lavoro e le sue residue rappresentanze sembrano paralizzate e silenti, in modo analogo a quanto già accaduto nei momenti più cupi della storia europea.

Il 3 luglio parte la raccolta firme sul referendum contro il Fiscal Compact. Cosa ne pensa?

Sul piano tecnico-giuridico l’iniziativa si muove lungo un sentiero impervio. Sul piano politico, se venisse interpretata con la necessaria radicalità, potrebbe aiutare ad accelerare le contraddizioni di un quadro europeo che in prospettiva resta insostenibile.