Emiliano Brancaccio, nel libro «Il discorso sul potere. Il premio Nobel per l’Economia tra scienza, ideologia e politica» (Il Saggiatore) con Giacomo Bracci avete prefigurato il premio Nobel a Esther Duflo che, in effetti, lo ha vinto con Abhijit Banerjee, e Michael Kramer. Perché ha definito «eretico» questo riconoscimento?
L’eresia sta nel metodo che questi ricercatori hanno usato per affrontare la povertà. Hanno adattato in ambito economico una procedura tipica della clinica medica che consiste nel dividere la popolazione in due gruppi in modo casuale, applicando una determinata politica a solo uno dei gruppi. In questo modo possono osservare i suoi effetti rispetto all’altro gruppo. È un po’ quello che avviene nei test sui medicinali. Il metodo è eterodosso perché si affranca dall’esigenza di definire a priori le ipotesi di comportamento degli individui ed è più flessibile rispetto all’approccio neoclassico che parte dal presupposto di comportamenti razionali degli individui. L’eresia è solo dal punto di vista metodologico. Sul terreno delle politiche mi sembrano più convenzionali e per certi versi criticabili.

Perché ha definito «minimalista» il loro approccio?
Con questo metodo Banerjee, Duflo e Kramer hanno sostenuto, ad esempio, che se si vuole aumentare il rendimento scolastico dei bambini in paesi particolarmente poveri non serve regalare libri o buoni per la scuola. Serve invece adottare politiche di prevenzione sanitaria di contrasto ai parassiti intestinali. Questo aumenta la frequenza scolastica dei bambini e quindi il loro rendimento. Il metodo è minimalista perché si limita ad avanzare proposte basate su incentivi e penalizzazioni. Aiuta a selezionare le proposte più efficienti di politica economica al fine di migliorare il rendimento scolastico o aumentare la produttività del lavoro. Questo metodo è stato criticato da altri premi nobel come Joseph Stiglitz, perché è riduttivo rispetto alle cause macroeconomiche che producono povertà e sottosviluppo. Si possono anche individuare incentivi capaci di rendere efficienti i comportamenti dei singoli, ma se si procede ai tagli alla spesa sociale dovuti, ad esempio, ad un aumento dei tassi di interesse che fanno esplodere il debito estero, è evidente che la causa macroeconomica domina e soverchia quella microeconomica.

In questo modo non si perdono di vista le ragioni strutturali che producono la povertà?
Sì, mi sembra che, almeno oggi, questi autori non pongano un problema di critica del regime di accumulazione capitalistico. Anzi talvolta hanno sostenuto che gli economisti, anziché pretendere di fare gli scienziati dei grandi fenomeni, dovrebbero comportarsi come gli idraulici che si accontentano di individuare le piccole falle delle politiche pubbliche e provvedono a rattopparle. Più minimalisti di così…

Ci sono tante povertà nel mondo. Quella in Europa o negli Usa è diversa da quella in Africa o in india. Oggi questa povertà viene sempre di più affrontata con le politiche attive del lavoro. In Italia questo approccio è stato confuso con il «reddito di cittadinanza». Cosa ne pensa?
Questa politica è fondata su una mistificazione. Si eroga un sussidio a condizione che il soggetto si impegni nella ricerca e nell’accettazione di un lavoro disponibile. Questa è una logica di workfare, ovvero un sussidio pubblico in cambio di lavoro e mobilità obbligatoria. E, per questo, mi sembra criticabile. In ogni caso, anche volendo accettare questa logica, se ne deve ravvisare l’ipocrisia di fondo: in Italia non ci sono posti di lavoro. Non si tiene affatto conto che, come l’Istat ci ricorda, a fronte di 10 disoccupati in Italia esiste meno di un posto di lavoro vacante disponibile.

Esiste un’alternativa?
Bisognerebbe avere il coraggio di sganciare il reddito di cittadinanza o di esistenza, che è questione autonoma, dalla questione altrettanto fondamentale della creazione di occupazione e dello sviluppo economico. Al momento mi sembra che su entrambi i versanti le attuali politiche economiche stiano dando risultati poco confortanti.