L’audacia procede da un eccesso di lucidità. Il tratto peculiare della vita e della scrittura di Emil Cioran. È il tratto di un’aberrazione. Di rifiuto della «normalità». Di un’offesa irriverente che ci colpisce e ci attrae perché la sentiamo venire da un’esperienza assoluta.
Il contatto esperito di un’impossibilità. Una condanna vissuta come dannazione, ma anche liberazione, lo ha portato ad assumere un’esistenza insolente e imperdonabile da chi vede in questa civiltà un luogo di possibile trasformazione della realtà.
Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994) di Emil Cioran, per l’editrice napoletana La scuola di Pitagora (pp. 480, euro 30), libro che raccoglie cinquant’anni di conversazioni e interviste curate da Antonio di Gennaro, ci fa avvicinare all’eccedenza di un uomo che ha guardato dentro e oltre le cose e che, con i capelli ormai imbiancati, racconta la genesi della sua inquietudine esistenziale.

L’esperienza dell’insonnia provoca nella sua vita un punto di non ritorno. Segna una cesura tra un prima e un dopo. L’impossibilità di dormire lo getta nel cuore della notte. Lo costringe a girovagare nelle strade deserte abitate solo dagli ultimi e dalle ultime dell’umanità. Soprattutto con loro trova un luogo di sapere, dove fa suo lo stile dell’imprecazione irriverente e della profanazione. In quelle strade sperimenta la dimensione del fallimento umano e della perdita. La condizione d’invisibilità e di estraneità vissuta da coloro che sono privi di radici, lo farà testo di una umana realtà per il perso, per i margini. La linea continua di un tempo senza interruzioni.

CONTINUITÀ che non gli lascerà alcuna possibilità di operare un taglio tra il giorno e la notte. Gli aprirà le porte del «nulla», della noia. L’irreparabile. Il sonno è la radice dell’illusione, l’insonnia svela la crudezza di una realtà insostenibile, dove la coscienza rivela i suoi inferni non abitabili. Tutta la vita di Cioran trascorre sull’orlo di questo abisso. L’idea stessa del suicidio, il darsi della sua possibilità, lo ha salvato dal compiere l’atto. Nella disperata percezione della vacuità, rimette in discussione tutto e vede nell’idea del suicidio la possibilità di una presa sulla sua vita. Essere autore del proprio annullamento. Tale idea «positiva», che caratterizza più di ogni altra cosa l’unicità dell’essere umano rispetto alle altre specie viventi, è l’ossessione che la più grande libertà di cui godiamo è quella di sbarazzarci di noi stessi. A torto il «cristianesimo» ha condannato come atto empio tale possibilità. E non ha compreso che l’idea stessa di questo potere, agisce per dispensare dal compiere realmente l’atto.

Anche la scrittura equivale a un phármakon, a una cura che allevia dalla maledizione di vivere e provoca una sorta di risveglio brusco alla realtà. La scrittura è opera di disfacimento dello stesso argomento di cui tratta. Il suo stile, aforistico e asistematico, innesca reazioni che non lasciano indifferenti. Questi due aspetti – la scrittura e l’idea del suicidio – rappresentano l’ultimatum che Cioran porge all’esistenza. Due strumenti che consentono di fare i conti con l’insostenibilità dell’ingiustizia della vita e di assumere il dolore come via maestra della conoscenza.
La saggezza è lo squarcio che si apre di fronte all’impossibilità umana di conoscere le ragioni profonde dell’essere al mondo. La conoscenza comporta un impulso distruttivo, è accesso a ciò che è interdetto. Il disincanto della magia del mondo.

DALL’ARITMETICA di queste disillusioni, deriva la necessità della separazione da tutto. In primis da se stesso e dal modo in cui aveva vissuto fino a quel momento. Di formazione filosofica, sviluppa in tenera età una passione frenetica per la filosofia greca e per la metafisica tedesca. Considerato uno studente promettente, approda a Parigi nel 1937 con il sostegno di una borsa di studio per una tesi che non porterà mai a termine. Non studia, non raccoglie il materiale preparatorio per la tesi. Inizia a girovagare in bicicletta per tutta la Francia e riuscirà a vivere così per tredici anni.

QUI EMERGE un’analisi implicita del regime economico neoliberale che ha avviato la trasformazione dell’homo sapiens in homo oeconomicus. Si andrà oltre. Un piano di occultamento e di cancellazione delle vite considerate non degne e che non trovano spazio neanche ai margini. Chi oggi volesse fare come me, avvisa Cioran, è spacciato. Dalla frequentazione assidua delle prostitute comprende che le persone vanno valutate per ciò che sono e non per ciò che fanno. Una portinaia può essere molto più interessante di qualunque filosofo soddisfatto e pieno di sé. Fuori dal circuito intellettuale, da ogni scuola e consorteria, l’unica sovranità cui darà qualche valore sarà quella dell’esperienza. Il mondo della notte aveva completamente cancellato in lui qualsiasi sentimento di onorabilità sociale e lo aveva allontanato in maniera irrimediabile dal contesto accademico. Si augura la definitiva dissoluzione dell’Università.

Ha riparo nella letteratura e nelle esperienze estreme degli eretici, dei mistici che hanno conosciuto tale stato di negatività assoluta nell’annullamento di sé. Sempre più vicino ai monaci buddisti e alle vie sapienzali del lavoro contemplativo, resta sulla soglia per l’incapacità di rinunciare ai piaceri/vizi del corpo e per la mancanza della forza spirituale necessaria.

C’è un aspetto molto interessante che emerge dalla lettura di queste interviste: il rapporto con le donne. A sedici anni Cioran lesse Otto Weininger, un filosofo austriaco che nel 1903 pubblicò, qualche mese prima di suicidarsi, Sesso e carattere. Un concentrato di pensieri antisemiti e misogini che ebbero una grande risonanza. Cioran ne fu colpito al punto che quella lettura determinò la sua visione delle donne viste semplicemente quali prostitute. Weininger negava alle donne qualsiasi tipo di realtà ontologica. Nella sua visione erano esseri privi di essere, delle cose, appunto. Cioran ci mise tempo a liberarsi di quest’immagine delle donne. Quando il suo sguardo finalmente fu libero, le scoprì vicine al suo sentire più degli uomini. Comprese che le donne vivono esperienze che un uomo non può capire. Attraversano gli estremi della vita umana. Il loro disequilibrio segna la forza di vivere esperienze assolute come quelle dell’estasi.

CIORAN ha un grande amore per Teresa d’Avila che considera la più grande santa di sempre. Per Edith Stein, per Elisabetta d’Austria, per Simone Weil, per María Zambrano, alla quale dedica uno dei suoi esercizi di ammirazione. La visione comune e differente che Cioran e Zambrano hanno della storia chiude queste riflessioni. Il loro destino è legato alla riscoperta di un’energia che proviene da antiche radici. Arrivano alle viscere umane, attraversano l’esilio, vedono l’agonia di un’Europa in frantumi. Concordano sul fatto che la strada che l’Occidente ha imboccato è menzogna. Si tratta di modificare il modo in cui ci relazioniamo alla realtà e noi stessi/e, sapere la nostra storia e dirci il vero.

In quel senso religioso indefinibile che accomunava entrambi, Zambrano si affida alla speranza della rinascita, al sapere dell’anima che accetta la vulnerabilità umana anche nel suo fallimento, Cioran si affida all’ironia della storia che porta necessariamente alla catastrofe e, per quanto riconosca che sia il male a guidare la storia, sa anche che non tutto è diabolico. Così, tra questi due poli, tra l’immagine dell’aurora e l’immagine del tramonto, la voracità dell’esistenza si riduce se impara ad accettare lo strappo indotto da questa radicale e necessaria lucidità.