È una vicenda dimenticata, se non del tutto sconosciuta, della storia dell’emigrazione italiana negli Stati uniti. Oggi, il primo sindaco donna e african-american di New Orleans, la democratica 47enne LaToya Cantrell, presenta alla comunità italo-americana le scuse ufficiali per il più grave ed efferato linciaggio di massa della storia americana.

Nell’Ottocento, richiamati dai posti di lavoro lasciati dagli ex schiavi afroamericani, migliaia di meridionali italiani raggiungono la capitale del jazz.

LA NOTTE del 15 ottobre 1890 viene ucciso il capo della polizia, David Hennessy, figlio di un poliziotto assassinato nel 1869 da un poliziotto. Famoso per aver catturato e consegnato all’Italia (che lo condanna all’ergastolo) nel 1881 il brigante Giuseppe Esposito, scappato a New Orleans. Nel 1882, processato per aver assassinato un poliziotto rivale, è assolto.

Nel 1888 il sindaco Joseph Shakspeare lo nomina capo della polizia. Il 6 aprile 1890 – nella faida per il controllo dei commerci tra i Provenzano, eredi degli Esposito, e i Matranga, alleati con Macheca, ricco commerciante di agrumi siciliani – i Provenzano freddano due uomini dei Matranga. Hennessy incarcera sei Provenzano ma poi incrimina i Matranga e annunzia la sua testimonianza a favore dei Provenzano, dei quali è amico.

Hennessy risponde sparando, ma non vede gli aggressori. Lo scontro è dovuto a contrasti che si trascinano da 30 anni dalla Sicilia tra la mafia e Stoppaglieri: a New Orleans le due famiglie rivali hanno ognuna tra i 200 e i 300 membri.

Per la stampa l’assassinio è opera della «mafia, misteriosa setta siciliana, che qui esiste da parecchi anni». Ricorda la sparatoria dei mafiosi, i sei morti e i quaranta omicidi. Un accusato è ucciso in carcere. La città vive nella paura, l’arrivo di un piroscafo carico di emigrati – considerati turbolenti e assassini – «desta grande emozione: si discute se non si debba opporsi colla forza allo sbarco di questi emigrati».

IL POLIZIOTTO O’Connor dice che Hennessy ha detto: «Dagos did it», «Sono stati i latini», ovvero della «bassa Italia», senza dire i loro nomi. Dubbia, vaga e incerta, l’indicazione porta all’arresto degli italiani e scatena una vasta campagna razzista ed xenofoba.

L’America, impaurita dal «fattaccio» ingigantito ad arte, blocca l’emigrazione della «feccia dell’Europa».

Al processo Emanuele Polizzi, sconvolto, in preda a una violenta emozione, senza essere interrogato, parla in siciliano e alle intimazioni del giudice non tace. Ottenuto un interprete confessa e accusa gli altri di essere stati pagati. Antonio Abbagnato, Antonio Scafidi, Emanuele Polizzi, Bastiano Incardona, Antonio Marchesi, Pietro Monasterio, Giuseppe Macheca e Carlo Matranga, si dichiarano innocenti. Li difende Thomas Semmes e lo fa quando è certo dell’innocenza dei clienti.

Nonostante la forte e chiara volontà di incastrarli, gli imputati – dopo 25 giorni – sono assolti, tranne tre per i quali i giurati non si accordano sulla pena. Il giudice Baker è ritenuto intelligente, imparziale e onesto ma per una leggenda i giurati sono stati pagati. Nessuno si domanda né come, né dove dei poveri emigrati possano aver trovato le ricchezze necessarie. Gli imputati rimangono a «disposizione» della legge per verificare se hanno altri reati e, con una forzatura giuridica, sono rinchiusi nel carcere. Non si capisce perché degli imputati assolti finiscano in carcere.

LO SCERIFFO Gabriel Villère, con un bando, convoca per sabato 14 marzo 1891, alle 10, i «bravi cittadini», chiedendo di essere «pronti all’azione». Venti minuti dopo una folla inferocita, «dalle dodicimila alle ventimila persone», precisò il quotidiano Harpe’s Weeklg del 28 marzo 1891, stranamente già organizzata e armata per una reazione così immediata, abilmente aizzata e incitata, comandata dall’avvocato William Parkerson e Wickliff, assale la prigione, sfonda le porte a colpi d’ascia e i custodi consegnano le chiavi. Il console italiano Pasquale Corte segue con preoccupazione la riunione e con il procuratore generale chiede invano l’intervento della polizia.

Il primo fucilato è Antonio Scafidi. Il minorenne Aspero Marchesi, risparmiato per l’età, è travolto e schiacciato. Giuseppe Macheca è il secondo. Sei – tra i quali Antonio Marchesi, il padre di Aspero – scappano per una scala ma sono bloccati nel cortile e fucilati. Il calzolaio Pietro Monasterio, gravemente ferito, li supplica di ucciderlo e lo accontentano. Antonio Abbagnato è impiccato ad un ramo. Emanuele Polizzi, balbetta frasi sconnesse, è legato con una corda al collo a un lampione. Si arrampica ed è ucciso in un orrendo tiro al bersaglio.

Sono undici le persone uccise. Otto, nascosti sotto le ampie gonne delle prostitute, si salvano.

UNA FOLLA inferocita di duecentocinquantamila persone sfila per cinque ore davanti ai cadaveri: le donne inzuppano il fazzoletto nel sangue e strappano lembi dei vestiti per trofei e macabri ricordi. Ai bar si celebra e si brinda alla «giustizia» sommaria del popolo inferocito.

Parkerson, portato a spalle in trionfo, congeda la folla esaltata: «Ora tornate e casa e Dio vi benedica». Poi negherà di aver partecipato al linciaggio: «la legge aveva traviato» e ha ubbidito alla folla gridando: «Andiamo!».

Sa che non ci vuole coraggio ad assalire uomini inermi ma erano «rettili velenosi». Conclude: «Non rimpiango l’accaduto. Finché la mafia si contentò di ammazzare i propri membri noi non siamo intervenuti; ma l’uccisione di Hennessy colpiva le istituzioni americane alla radice. Le intimidazioni della mafia e la corruzione dei giurati domandavano misure rigorose. Non riconosco nessuna autorità superiore al popolo».

Per il sindaco hanno «agito bene». Aggiunge: «Sono cittadino americano, non ho paura neppure del diavolo. Questi uomini meritavano di essere impiccati. Quando sentii che erano stati assolti, rimasi paralizzato sulla sedia. Sono stati puniti con mezzi legali da pacifici cittadini, ossequienti alla legge. Si è ripetuto qui quello già fatto in Italia. La mafia colà era diventata troppo forte e il sovrano vi ha posto rimedio. Qui pure il sovrano – il popolo – ha provveduto. Sono pronto a difendere i pacifici italiani, non costoro… Essi inalberarono la bandiera siciliana sopra l’americana, uno fu visto calpestare la nostra bandiera».

Legale il linciaggio e pacifici cittadini ossequienti alla legge?! I responsabili non saranno mai perseguiti. Per la Giuria, il popolo «agì in modo che è difficile determinare la colpa», la città simpatizza e non è possibile sanzionare gli imputati.

PER IL CONSOLE Corte si è sparso sangue innocente e le autorità non l’hanno impedito. La stampa sollecita e incoraggia le rappresaglie contro gli italiani, insultati e percossi. Alla Camera dei deputati, il 16 marzo 1891, Di Rudinì risponde a Giovanni De Breganze e a Maggiorino Ferraris accennando alle promesse americane di punire i responsabili: per Ferraris sono indegni di un popolo civile e gli emigrati erano stati dichiarati innocenti. Il 30 aprile 1891 Di Rudini presenta il Libro Verde sui fatti.

Il 14 maggio Angelo Quintieri, deputato calabrese, denunzia che la vertenza si trascina da due mesi in trattative diplomatiche, che allontanano da una riparazione pronta ed efficace. L’eccidio, «atto inumano», è grave: per i cittadini, sotto la vigilanza e la protezione della legge, stigmatizza la giustizia a furor di popolo. Per Di Rudinì non bisogna esagerare, è questione giuridica.

Il New Yorh Herald manda un giornalista in Sicilia. A Caccamo (Pa) incontra la moglie e la madre di Monasterio, che, abbracciandosi e piangendo, mostrano i figli orfani e le lettere ricevute dalla prigione e giura di essere innocente. Per i paesani era un onestissimo calzolaio andato in America per lavorare, per i debiti e la famiglia. Non sono mafiosi e non chiedono vendetta, ma giustizia e verità.

La Gazzetta Piemontese – l’odierna La Stampa – dell’11 maggio 1891 sottolinea il contrasto tra un’azione brutale di chi a sangue freddo assale una prigione, trucida barbaramente uomini inermi dichiarati innocenti dalla legge e l’assoluta sicurezza di un «mezzo concittadino dei linciatori», tra le montagne della Sicilia, tra i parenti che – invece di vendicare i loro cari minacciando il giornalista – lo commuovono coi loro pianti e uno spettacolo straziante.

GLI EMIGRATI protestano. Imponente il meeting di New York con oltre ottomila persone. Da New York, G. P. Morosini invia un assegno di 25 dollari al direttore del Progresso Italo-Americano, scrive: «la protesta contro il barbaro macello dei nostri fratelli sia calma e dignitosa, onde gli americani apprendano che mentre noi italiani, in questi paesi, siamo rispettosissimi delle leggi ed anche della libertà e della gloriosa bandiera stellata, pur nondimeno vogliamo essere rispettati e trattati da eguali e non come negri o cinesi».

L’americano George Francis Train telegrafa al presidente Benjamin Harrisson: «Pagate danni indennizzando italiani assassinati prima che l’Italia faccia rappresaglie».

Si sfiora la crisi diplomatica: a Washington, l’ambasciatore Francesco Saverio Fava protesta: le autorità non hanno impedito la riunione, l’assalto e il massacro. Chiede di proteggere gli italiani sempre minacciati, di consegnare i responsabili del massacro alla giustizia e invoca un’energica repressione e provvedimenti per tutelare la colonia italiana. Richiamato in patria presenta le dimissioni.

Quando il presidente Harrison definisce l’assassinio collettivo di New Orleans «un’offesa alla legge e un crimine contro l’umanità», il Congresso protesta per incriminarlo con l’impeachement. La proposta di indennizzare le famiglie delle vittime con 2 mila e 500 dollari cadauna è accolta a suon di fischi.

128 anni dopo il sindaco di colore di New Orleans LaToya Cadrell tenterà di cancellare una brutta pagina di storia.