Passato a Venezia alla Settimana della Critica, arriva sugli schermi Banat (Il viaggio) l’esordio italiano di Adriano Valerio. Protagonista un giovane laureato, Ivo (Edoardo Gabbriellini), un agronomo provvisoriamente occupato in lavori occasionali che accetta una proposta da Bucarest che richiede proprio la sua specializzazione, un impiego impossibile da trovare in Italia. In questi spazi apparentemente così deserti si muovono come fantasmi i riflessi di tanti film classici (in questo caso i «western» di Dan Pita per non arrivare ai contemporanei), ma si deve cancellare quel riferimento, togliere ogni altra curiosità sul luogo che non sia la problematica realtà del protagonista.

Se la situazione in Italia è difficile, scoprirà che lo è altrettanto in Romania, le aziende agricole rischiano anche lì il tracollo. Il rifiuto di ogni organizzazione cooperativa, dopo la caduta del comunismo ha portato a un individualismo che non aiuta a risolvere casi di emergenza. Anche nell’azienda dove si è trasferito gli stipendi non sono stati pagati da mesi. Il senso di spaesamento che dà il film proviene dalla stessa situazione in cui si trova il protagonista (e un’intera generazione di trentenni), la sua immagine riflessa è quel paesaggio, le abitazioni viste da lontano, gli stessi alberi di mele minacciati da gelate che non possono essere evitate perché mancano i soldi per comprare l’antigelo.

Anche Bari che ha lasciato il protagonista appare un luogo provvisorio, scatoloni nell’appartamento tra chi parte e chi arriva. Mentre Ivo è in partenza arriva Clara (Elena Radonicich) la nuova inquilina.

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Tra i due si erge la presenza di una tosta padrona di casa (Piera Degli Esposti). Clara ha un lavoro al cantiere navale, ma arriva il licenziamento, così decide di andarlo a trovare: la breve intesa che si crea tra i due li farà incontrare nuovamente. Poche parole, piccoli gesti, labili episodi che spuntano nel racconto inaspettati (un cane perduto a Bari vecchia, il Tai chi chuan da insegnare alle contadine romene), con uno sguardo più nordico che mediterraneo. L’immagine crepuscolare predominante, nutrita di un passato che si vuole superare, di un presente senza prospettive, è scossa da qualche iniziativa da prendere per cambiare la situazione, un diverso modo di distribuire la frutta ad esempio, l’utilizzo del legno di barche abbandonate per riscaldare gli alberi.

Ma anche queste iniziative vengono frustrate. «Tu non sai come vanno le cose qui», gli viene detto, proprio come gli avrebbero detto i contadini pugliesi. Il proprietario dell’azienda per spiegarglielo gli racconta un episodio della sua vita. Giocava a calcio? Sì, il suo nome è Helmut Duckadam, il portiere dello Steaua che parò 4 rigori nella finale contro il Barcellona facendo vincere alla sua squadra la Coppa dei Campioni nell’86, la prima volta per un paese dell’est. Re Carlos gli regalò una Mercedes e il figlio di Ceaucescu gli fece spezzare le mani, la voleva lui la Mercedes.

La storia da cui prende spunto il film nasce dall’esperienza di un amico del regista, che andò in Romania a fondare un’azienda agricola nell’epoca in cui i romeni seguivano la rotta inversa ed emigravano in Italia. Adriano Valerio (classe ’77) invece ha scelto Parigi, dove vive da dodici anni, lì ha studiato cinema. Ha vinto molti premi tra cui la menzione speciale a Cannes 2013 per il corto 37 gradi 4S e il David di Donatello e imparato forse un po’ dal cinema francese a sottrarre, suggerire, camminare con passo leggero.