Dopo la denuncia del Garante nazionale delle persone private della libertà il ministro della Giustizia e il capo dell’amministrazione penitenziaria hanno annunciato un’ispezione che faccia luce sui 35 suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane.

I suicidi in carcere non vanno genericamente strumentalizzati. Sarebbe ingiusto nei confronti di chi fa una scelta così tragica e di chi lavora in prigione. Una persona in carcere è nelle mani dei suoi custodi legali. Non perde però la sua libertà interiore. Molto spesso accade che dopo un suicidio parta la caccia ingiusta al responsabile, spesso identificato nel poliziotto di sezione. Nelle carceri la prevenzione dei suicidi è spesso intesa in senso meccanico. Una volta identificata la persona a rischio le si toglie, non l’intenzione, ma ogni oggetto con cui possa ammazzarsi: lenzuola, asciugamani, cinture. Capita che si lasci quella persona semi-nuda o semi-vestita in cella. Il controllo visivo viene reso asfissiante. Tutto questo accade perché le inchieste giudiziarie sui suicidi sono sempre state dirette a identificare i responsabili del mancato controllo piuttosto che le cause più profonde dello stesso, così alimentando un circolo vizioso che rende la vita del detenuto ancora più difficile.

I suicidi in carcere vanno indagati sempre a livello amministrativo, oltre che giudiziario. Un’indagine non formale che ad esempio accerti se il detenuto ritenuto a rischio di suicidio sia stato ascoltato, sia stato trattato non come un numero, ma come una persona, con un nome, un cognome, una biografia.

In carcere operano direttori, poliziotti penitenziari, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, cappellani e tante altre figure, alcune delle quali a titolo volontario. Molti di loro fanno un lavoro straordinario di prevenzione quotidiana. Lo fanno nonostante turni massacranti. Un direttore spesso non è nelle condizioni di conoscere i detenuti che deve custodire in quanto è costretto a dirigere a volte anche due-tre istituti. Da oltre vent’anni non si assumono nuovi funzionari. Così il sistema , invecchiato e in burn-out, muore insieme ai detenuti che si tolgono la vita.

Sarebbe importante che l’inchiesta ministeriale evidenzi se vi sono state concause, oltre alla disperazione individuale: se la persona suicidatasi era stata ascoltata da esperti psicologi o educatori; quale fosse l’origine del suo disagio; se aveva già tentato di farsi del male; se aveva subito rapporti disciplinari; se era stata punita, messa in isolamento o in qualche reparto particolare; se aveva denunciato episodi di sopraffazione o violenza nei suoi confronti o di altri compagni; se ci sono stati più suicidi in quello stesso carcere (come avvenuto a Napoli Poggioreale o a Viterbo). È meno importante verificare se il controllo visivo dell’agente di sezione, che troppo spesso diventa il capro espiatorio di turno, sia avvenuto con regolarità svizzera.

Spesso si è discusso su come prevenire i suicidi. E’ banale dirlo ma la migliore forma di prevenzione passa da una vita penitenziaria non violenta, che non sprofondi nell’ozio forzato e che non produca una cesura con il mondo esterno. Due cose si dovrebbero fare subito: 1) per tutti quei detenuti che la magistratura non sottopone a forme particolari di controllo prevedere una ben più ampia liberalizzazione delle telefonate con i propri cari. In Italia i detenuti possono telefonare una volta a settimana per soli dieci minuti. In tantissimi altri paesi non ci sono questi vincoli così rigidi. Una telefonata a un figlio o a un genitore o a un amico, in un momento di disperazione, potrebbe salvare una vita. 2) Chiudere tutti i reparti e repartini di isolamento. Sia quelli formalmente destinati a tale scopo che quelli sostanzialmente utilizzati per trattare persone considerate difficili. L’isolamento è un luogo oscuro dove possono accadere i fatti più truci, dove i pensieri di morte possono diventare ossessivi.