Guerra. Eroi. Battaglia. Trincea. Prima ancora che l’esercito scendesse a presidiare le strade, la lotta contro la pandemia ha assunto subito una fisionomia bellica. Il carattere guerresco della narrazione di questo disastro, però, schiaccia la questione su un piano inadeguato alla piena comprensione di questa emergenza.

Gli sforzi e le speranze di ciascuno sono, ovviamente, rivolti all’aspetto “medico” della questione, nella speranza che un sistema sanitario fatto a pezzi regga e nell’attesa di un vaccino. Quindi su un piano esclusivamente “terapeutico” mentre le implicazioni di questa stagione buia sono molto più articolate.

Questa zoonosi, come si definiscono le malattie che nascono dalla relazione tra uomini e animali, in breve tempo dalla sua scoperta è giunta a toccare 25 Paesi nel mondo mostrando subito il suo carattere di infezione aggressiva e grave, molto più di una normale influenza, nonostante le prime rassicurazioni di alcuni incauti virologi e delle autorità di quasi tutti i Paesi del Mondo. Il secondo passaggio è stato quello della ricerca del colpevole. Chi ci ha infettato?

Il patogeno, chiamato 2019-nCoV, è un’entità giunta per la prima volta a confrontarsi con il nostro sistema immunitario. Qualche anno fa il focolaio di Sars ha rappresentato la prima infezione globale del XXI secolo, provocando uno shock collettivo. Improvvisamente i morbi del passato non erano più fantasmi. Ma l’epidemia di Sars non è stato l’unico precedente e non è stato l’ultimo.

La scienza studia da tempo le Emerging Infectious Diseases (EIids), cioè le patologie infettive che emergono tra gli umani per la prima volta e sono stati numerosi gli appelli, caduti nel vuoto, ad alzare il livello di guardia.

La letteratura scientifica, inoltre, ha da tempo identificato i fitti legami fra diffusione delle patologie infettive e fattori “antropici” come l’elevata densità abitativa dei centri urbani e la fittissima rete di commerci e attività produttive, l’allevamento intensivo del bestiame e l’ampliamento smisurato dei terreni coltivabili a spese della foresta.

In questo contesto le Eids sono aumentate dal Dopoguerra ad oggi, nonostante i progressi della medicina ed è fin troppo chiaro, quindi, che non ci troviamo di fronte a un evento inatteso ma al centro di una crisi ampiamente prevista. Queste malattie sono conseguenza del nostro ruolo predatorio nei confronti del Pianeta, che ha determinato il convergere di due crisi, ecologica e sanitaria.

Ecco perché affidarsi esclusiva alla ricerca di un vaccino e alla politica per le misure di controllo sociale della pandemia rischia di non farci uscire dal problema, anche se come speriamo tutti, in qualche modo finirà questa stagione della paura.

Quegli stessi ricercatori ci dicono da tempo che dobbiamo prepararci a nuove epidemie e alle loro ricadute in termini economici e sociali, considerato che l’epidemia di Sars nel 2003, la pandemia di H1N1 nel 2009 e l’Ebola che ha colpito l’Africa Occidentale tra il 2013 e il 2016 hanno causato danni per circa dieci miliardi di dollari ciascuna. Se pensiamo che la battaglia da combattere sia solo contro il 2019-nCoV, abbiamo già perso.

Il virus responsabile di questa pandemia è molto diffuso fra le specie animali, inclusi i mammiferi. In seguito alle mutazioni cui va naturalmente incontro è riuscito a saltare da una specie a un’altra grazie al contatto diretto fra le due specie che ha fornito il terreno di coltura a un virus che, si fosse trovato in una grotta di montagna anziché in un affollato mercato, non avrebbe avuto ospiti in cui insediarsi. Il pipistrello, o l’uomo erano nel posto sbagliato.

Il fenomeno delle mutazioni è del tutto naturale per cui quello su cui probabilmente va soffermata l’attenzione è la relazione fra uomo e animale di cui la patologia è il frutto. La malattia, quindi, va letta dentro il complessivo rapporto uomo/ambiente. E’ così per l’Ebola, così per l’HIV-1 e per centinaia di zoonosi.

Ha ragione Piero Bevilacqua (il manifesto, 19 marzo) a chiedersi perché la riflessione ecologica intorno alla pandemia non trovi alcuno spazio nel dibattito pubblico. Sicuramente il “cronico analfabetismo ecologico degli intellettuali italiani” è un elemento determinante così come l’angusto spazio degli specialismi dentro cui si muove gran parte del mondo scientifico.

I medici oggi impegnati in prima linea devono sapere che dal giorno dopo la fine di questo incubo collettivo bisognerà provare a costruire un nuovo modello di cooperazione fra i saperi per affrontare problemi di tale portata attraverso la progettazione di soluzioni condivise fra i diversi ambiti della scienza.

La politica e la società tutta sono in ritardo rispetto a questo tema ed è il momento di colmare questa frattura e far entrare con forza queste tematiche nel dibattito pubblico. Altrimenti dopo il brindisi per il vaccino viaggeremo spensierati verso un nuovo disastro che potrebbe essere peggiore.