Nella giornata di lunedì, a margine del Summit dell’Associazione dei Paesi del Sudest Asiatico (Asean) in corso in questi giorni, a Manila si è tenuto il primo vertice bilaterale ufficiale tra il presidente filippino Rodrigo Duterte e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Una manna scesa dal cielo per i fotogiornalisti presenti all’evento, che hanno avuto una seconda occasione – dopo un breve incontro tra i due presidenti in Vietnam qualche giorno fa – per immortalare due tra i leader più controversi del pianeta. E, senza alcuna sorpresa, uno show di vacuità e slalom tra le domande poste da chi, oltre allo show fotografico, sperava in uno straccio di risposta, un briciolo di contenuto oltre allo sfoggio muscolare.

Secondo quanto riportato dal Washington Post, durante la breve conferenza stampa a seguito del meeting di 40 minuti tra Duterte e Trump, mentre il presidente statunitense fingeva di non sentire chi gli intimava urlando una dichiarazione circa le violazioni dei diritti umani nelle Filippine, il presidente Duterte ha preso in carico la gestione della folla di giornalisti prima richiamando alla calma e poi accusandoli, ridacchiando, di essere delle «spie»: appellativo accolto con un risolino da The Donald, in piena sintonia con l’uomo forte delle Filippine quando si tratta di aver a che fare con la stampa.

In effetti, nonostante i ripetuti appelli sollevati da organizzazioni non governative alla vigilia dell’incontro, pare che tra i temi affrontati da Duterte e Trump la questione dei diritti umani nelle Filippine non sia proprio stata sollevata, lasciando spazio al consenso raggiunto in materia di terrorismo islamico, lotta alla droga e prospettive commerciali tra i due paesi. Dopo oltre un anno e mezzo di «campagna antidroga» promossa dal governo Duterte nelle Filippine, decine di migliaia di arresti, quattromila morti ammazzati come «vittime collaterali» e quasi il doppio di esecuzioni extra giudiziali di cui nessuno, tra polizia ed esercito filippino, ha ancora risposto davanti a un tribunale, Trump si è mostrato «decisamente favorevole» al lavoro fin qui svolto dagli apparati di sicurezza filippini.

Se la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders si è timidamente sbilanciata raccontando che il tema dei diritti umani «è stato brevemente discusso discusso nel contesto della lotta alle droghe illegali nelle Filippine», il suo omologo filippino, Harry Roque, è stato decisamente più tranchant: «Non si è fatta alcuna menzione dei diritti umani, né degli omicidi extra giudiziali».

Un’accortezza che ha suggellato l’inizio di una «grande relazione», parafrasando Trump, e di un apparente riavvicinamento tra Stati Uniti e Filippine: due «importanti alleati», ha specificato Duterte, ringraziando Washington per il sostegno logistico militare fornito durante i cinque mesi dell’assedio di Marawi, città dell’arcipelago del Mindanao caduta nelle mani di terroristi islamici ispirati all’Isis e ufficialmente riconquistata dall’esercito filippino lo scorso mese di ottobre.

L’ultima volta che un presidente americano – Barack Obama – aveva sollevato il problema dei diritti umani nelle Filippine, aveva ottenuto in cambio una delle più classiche sfuriate anticonvenzionali «alla Duterte», che gli aveva dato letteralmente del figlio di puttana.

Ultima in ordine di tempo, la scorsa settimana Duterte, durante una conferenza stampa in Vietnam, si era vantato della sua gioventù burrascosa: «Quando ero adolescente facevo avanti e indietro dalla galera. Una rissa di qua, una rissa di là. A 16 anni ho ammazzato uno con una coltellata, durante una rissa. Ci eravamo guardati male». Chiamato nuovamente a contenere le intemperanze del proprio presidente, il portavoce Roque il giorno seguente ha precisato che «lui fa così, quando è in mezzo ad altri filippini all’estero. Probabilmente era uno scherzo!». Probabilmente.