Quattro anni fa, un’inondazione senza precedenti allagò il paese di San Pedro de Tultepec, in Messico. Il fiume straripò e l’acqua inquinata del torrente finì per inondare le strade.

«Tutta quella pioggia aveva inondato il mio paese. Poco meno di mezzo metro, acqua alta così», spiega Xiye Bastida, attivista climatica diciassettenne di San Pedro, che da qualche anno vive a New York, mentre con la mano indica l’altezza dell’acqua da terra. «Ma con il fiume contaminato e una piccola città di 10.000 persone senza sistema fognario, i rifiuti degli impianti industriali inondarono le strade. L’acqua inquinata attraversava le comunità più povere del paese».
Le comunità emarginate e a basso reddito spesso non hanno accesso ad acqua ed aria pulita, non solo in Messico. Questa dinamica discriminatoria è ciò che ha alimentato il movimento di giustizia ambientale. Nato negli Stati Uniti degli anni ‘70, il movimento si concentra su una dimensione particolare del degrado ambientale: il razzismo ambientale, o eco razzismo, dall’inglese eco racism.

IL TERMINE INDICA IL MECCANISMO per cui le comunità socialmente marginalizzate hanno accessibilità limitata, se non addirittura assente, ad acqua, aria e terra non contaminata. L’Italia non è estranea a questa dinamica. Chi lotta per la giustizia ambientale spesso si è trovato a dover affrontare il pantano di un governo bloccato dall’inerzia e una società piagata dalla discriminazione. All’interno di questo meccanismo, e su scala globale, il razzismo ambientale ha giocato un ruolo chiave nella segregazione delle comunità indigene.

«Nel momento dell’inondazione ho visto gli effetti della crisi climatica attraverso l’ingiustizia ambientale e il razzismo ambientale sistemico», dice Xiye. «Non conoscevo nessuno di questi termini fino a quando non ho deciso di studiare l’elemento giustizia del movimento climatico. Ora, ripensandoci, posso facilmente definire quell’episodio dell’inondazione per quello che è».

LA CRISI CLIMATICA, INFATTI, NON SI DECLINA solo attraverso la distruzione dei nostri ecosistemi naturali ma anche attraverso i fattori sociali ed economici dell’ingiustizia ambientale. Ma dove si incontrano il cambiamento climatico e il razzismo ambientale? Bill McKibben, autore del primo libro sul cambiamento climatico (pubblicato nel 1989) e co-fondatore di «350.org», definisce la «legge di ferro» del cambiamento climatico: soffre maggiormente chi ne è meno responsabile. La realtà è che la crisi sta colpendo e continuerà a colpire alcuni più duramente di altri. La traiettoria della disuguaglianza sociale si sviluppa di pari passo a quella del degrado ambientale e più permettiamo che l’emergenza climatica peggiori più le disparità sociali ed economiche saranno esacerbate.

ANCHE L’IPCC, GRUPPO INTERGOVERNATIVO sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, sottolinea la dimensione sociale del cambiamento climatico e dichiara in un rapporto ufficiale che «gli impatti del cambiamento climatico saranno più severi non solo per i più poveri, ma anche per (…) gli anziani, i giovani, i più vulnerabili, gli indigeni e gli immigrati recenti».

Il razzismo ambientale agisce su due fronti, sociale e territoriale, l’uno in relazione con l’altro. Da un lato, le discariche e gli impianti inquinanti tendono ad essere costruiti nelle aree di comunità marginalizzate, popolate da famiglie a basso reddito e da minoranze sociali con alti tassi di disoccupazione. Basti pensare a molti degli impianti chimici nel Sud Italia; Bagnoli, Taranto, Acerra. Negli Stati Uniti esiste una dinamica simile, declinata in particolare su una discriminazione di tipo razziale. Uno studio comparativo ventennale, condotto da Robert Bullard, noto come il padre della giustizia ambientale americana, ha analizzato le caratteristiche razziali e socio-economiche appartenenti alle comunità nelle vicinanze di discariche di rifiuti tossici e ha concluso che un numero sproporzionato di neri risiede in aree con strutture per lo smaltimento di rifiuti chimici.

In Louisiana le comunità più povere che risiedono lungo un tratto di circa 130 chilometri sul fiume Mississippi sono inquinate da impianti petrolchimici che contaminano aria e acqua. Questo tratto ha preso il nome di Cancer Alley, Strada del Cancro. Nel sud della California, dove le comunità latine vivono lungo il New River, le maquiladoras, le fabbriche situate al confine con il Messico scaricano i loro rifiuti. D’altra parte, le comunità marginalizzate vivono nei luoghi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, dove la povertà aggrava la loro vulnerabilità, secondo il Minority Rights Group.

IL RAPPORTO ANALIZZA L’IMPATTO del cambiamento climatico su minoranze e popolazioni indigene e sottolinea lo stretto rapporto che hanno con la terra e l’ambiente in cui vivono. Ed è proprio questo legame che rende le popolazioni più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico.
Circa 400.000 indigeni popolano l’Artico, dove la temperatura dell’atmosfera aumenta due volte più rapidamente che in qualsiasi altro luogo sulla Terra. I Sami della Norvegia settentrionale, della Svezia, della Finlandia e della Russia, tradizionalmente allevano renne, ma l’assottigliamento del ghiaccio artico ha reso pericolose le aree di pascolo delle renne, costringendo le popolazioni a cercare nuove rotte per le mandrie. Inoltre, l’aumento delle temperature e delle precipitazioni rendono più difficile per le renne raggiungere i licheni dei quali si nutrono.

SECONDO IL RAPPORTO, MATHIS-EIRA, pastore di renne e vicepresidente del comitato esecutivo del Consiglio Sami, ha detto: «Gli anziani ci dicevano sempre come spostare le mandrie e dove era sicuro andare, ora non sono sicuri di poterlo fare ancora perché le condizioni sono molto diverse». Molti aspetti della cultura Sami sono intimamente legati alla pastorizia delle renne che fa parte della loro identità. «Se l’allevamento di renne scompare, avrà un effetto devastante su tutta la cultura del popolo Sami», ha spiegato Mathis-Eira. «Penso proprio che il cambiamento climatico stia minacciando l’intero popolo Sami”.
Nel 2017, Xiye è stata invitata a parlare ad un forum delle Nazioni Unite sullo sviluppo urbano in Malesia. Il suo discorso ha sottolineato l’importanza di tenere in considerazione la conoscenza indigena nei progetti di sviluppo delle città, proprio perché «gli indigeni conoscono la terra più di chiunque altro». In questo senso, gli impatti del cambiamento climatico sono stati dannosi per molte popolazioni indigene, come ad esempio quelle che vivono sulla remota costa atlantica del Nicaragua. I ritmi delle precipitazioni sono cambiati e, secondo il rapporto del Minority Rights Group, le conoscenze tradizionali sui tempi delle colture non sono più affidabili. «Sono stata cresciuta con la cosmologia indigena del prendersi cura della terra e della necessità di reciprocità con la natura. Dobbiamo tornare a prenderci cura della terra come se fosse parte della nostra cultura», ha detto Xiye. «Non dovrebbe essere un movimento. È assurdo, secondo me, essere al punto in cui volersi prendere cura della terra e delle nostre risorse debba essere un movimento. Tutto ciò dovrebbe far già parte di noi, della nostra vita».

LA GIUSTIZIA SOCIALE E IL MOVIMENTO climatico sono profondamente interdipendenti e non possono muoversi separatamente. Dopo il primo sciopero climatico globale, lo scorso mese di maggio, Xiye ha riflettuto sul significato di questo legame. Ho cambiato la mia biografia di Instagram e ho scritto: «17 anni, attivista per la giustizia climatica. Perché non sono solo un’attivista per il clima, sono un’attivista per la giustizia climatica».

Ma anche Xiye è d’accordo sul fatto che non bastano una bio sui social media e una precisazione lessicale per cambiare il sistema e far fronte alle forze che favoriscono il razzismo ambientale. «Quando vedi il cambiamento climatico colpire la tua casa, il disastro è molto più vicino al tuo cuore», ha confessato Xiye. «Ma non possiamo aspettare che il mondo intero sia colpito dal cambiamento climatico affinché la gente si svegli, dobbiamo pensare a ciò che sta già accadendo».