Che il sistema dei cosiddetti “residence”, cioè dei centri per l’assistenza alloggiativa temporanea (Caat), vada cambiato e se possibile abolito, pochi ormai lo mettono in dubbio. Nel corso di un decennio, da quando vennero istituiti dalla prima giunta Veltroni, quelle che dovevano essere delle sistemazioni temporanee in attesa della casa popolare si sono trasformate in contenitori permanenti dei disagio abitativo romano. Un disagio che ha portato milioni di euro nelle tasche dei costruttori proprietari degli immobili adibiti a Caat, un travaso di soldi pubblici che non ha contribuito in alcun modo alla risoluzione del problema casa.

Sin dall’inizio il sindaco Ignazio Marino ne ha fatto uno dei punti qualificanti della propria proposta politica. Appena eletto, una delle sue prime dichiarazioni, a cui seguì immediata una memoria di giunta che impegnava politicamente il Comune, fu proprio quella sulla chiusura immediata dei residence. Era il 2013, ma oggi la vicenda ha subìto un’apparente accelerazione: dal 1° gennaio 2016 infatti i Caat verranno destituiti in favore dei Saat, Servizi di assistenza alloggiativa temporanea. Dopo aver tentato con l’ennesimo bonus casa (una sorta di contributo all’affitto erogato dal Comune ai cittadini che ne avessero fatto richiesta e in possesso dei requisiti economici necessari), provvedimento fallito per mancanza di interesse da parte dei cittadini in emergenza abitativa, oggi il Comune sembrerebbe aver trovato la soluzione definitiva, il cambio di passo nella gestione della questione sociale più importante della città.

A ben vedere, però, le contraddizioni che presenta il bando di gara lanciato dal Comune di Roma suscitano più di una perplessità. Quello che doveva essere l’obiettivo strategico di tutta la proposta, cioè l’abolizione dei residence, non sembra essere presente. L’unico cambio è nella dimensione dei centri destinati all’accoglienza: dal 2016 questi non potranno superare i sessanta appartamenti. Una ben misera “svolta”, visto che ad oggi i residence che superano tale cifra sono pochissimi.

L’altra questione cruciale, che rendeva il sistema residence un trasferimento economico a fondo perduto dalle casse pubbliche a quelle dei privati, e cioè la proprietà degli immobili e la gestione del servizio di portineria, non è chiarito. Fino ad oggi sia gli immobili che i servizi erano appaltati ai privati. Il bando lanciato dal Comune non sembra risolvere la questione, visto che la gara è aperta a tutti e dunque la partecipazione e l’eventuale vittoria dei costruttori sembrerebbe essere scontata. Altrimenti, il Comune non avrebbe lanciato alcun bando e avrebbe avocato a sé direttamente la gestione dei centri, ri-pubblicizzando un servizio essenziale che nel corso degli anni è stato esternalizzato attraverso appunto questo tipo di bandi.

Il resto della proposta, che si può leggere sul sito del Comune, non apporta alcun tipo di variante rispetto all’attuale modello. Il servizio di portineria, che in precedenza avrebbe dovuto essere abolito, permane con le medesime funzioni. I controlli serrati della Guardia di Finanza sui redditi dei residenti, altra proposta sbandierata come rivoluzionaria, sono già in essere da diversi anni, quindi anche in questo senso niente di nuovo. Il fatto che i Saat siano «dislocati diffusamente sul territorio» è anch’essa un’ovvietà, visto che già ora e da sempre i residence sono presenti trasversalmente in tutto il territorio comunale, senza per questo aver avvantaggiato dinamiche d’integrazione sociale.

Insomma, alla fine dei conti la rivoluzione annunciata da Marino sembrerebbe essere più di facciata che reale. Il cambiamento auspicato da tanti sembra per l’ennesima volta ridursi ad un’operazione d’immagine che non affronta alla radice il problema abitativo romano, cioè la penuria di alloggi popolari in un mercato degli affitti controllato dai costruttori e schizzato verso l’alto dall’abolizione dell’equo canone. E’ presente, è vero, una riduzione del costo che, a sentire il Comune, dovrebbe essere di 13 milioni di euro all’anno, ma questo è dato unicamente dalla riduzione degli alloggi disponibili, non da una loro razionalizzazione in funzione dell’autonomia economica dei cittadini in difficoltà. Oltretutto, tale bando ha scadenza il 31 dicembre 2017. Entro questa data o i residenti assistiti avranno trovato la propria indipendenza economica – non si capisce bene come se parallelamente non si attivano servizi sociali atti alla ricerca di un’occupazione – o per loro finirà ogni possibile assistenza.

E allora i problemi, più che ridursi, si moltiplicheranno per il Comune, destinato a tamponare un’emergenza che a quel punto rischia di divenire ingestibile.