Fiumi, torrenti, sorgenti, invasi, dighe, bacini. Quasi un miliardo di metri cubi d’acqua: eppure la Sicilia, circondata dal mare, soffre la sete. A Palermo l’incubo del razionamento incombe. Il governo Musumeci ha chiesto lo stato di calamità al Consiglio dei ministri, la cui decisione è attesa a ore. La colpa? È piovuto poco, anzi pochissimo per gli esperti. Sette mesi boccheggianti o quasi. Il livello dell’acqua negli invasi è basso, gli agricoltori stanno già contando i danni.
MA È DAVVERO SOLO COLPA del meteo? Non proprio, anzi. Dissalatori guasti, dighe semi-abbandonate, invasi con capacità tenute al di sotto del potenziale per questioni di sicurezza dovuti all’assenza di investimenti per lavori di drenaggio e manutenzione mai fatti, oltre 40 milioni di fondi Ue sul capitolo idrico ancora fermi, gestori privati che non versano un euro per riparare reti colabrodo ma poi presentano bollette salate ai cittadini che intanto s’arrangiano con bidoni e autocisterne come accade da decenni soprattutto nell’area di Agrigento e Caltanissetta.

A PALERMO, IL SINDACO Leoluca Orlando ha già nel cassetto il piano di emergenza predisposto dall’Amap, l’azienda pubblica per la gestione dell’acqua: sono previsti turni per la distribuzione. Un problema che si aggiunge all’altra emergenza in corso, quella dei rifiuti con la discarica di Bellolampo ai limiti. Anche qui si spera nel Cdm per avere poteri straordinari per l’emergenza. Non proprio un bel biglietto da visita per una città di 700 mila abitanti, che qualche giorno fa ha celebrato la cerimonia d’apertura, col premier Paolo Gentiloni in prima fila, di «capitale italiana della cultura» per l’intero 2018.

MA SE NEL CAPOLUOGO ci si prepara ad autobotti e bidoni, altre zone della Sicilia stanno peggio. A Naro, paesino di 7.600 abitanti in provincia di Agrigento, l’acqua in alcuni quartieri manca per venti giorni di fila. Eppure in questo paese collinare, da dove si scorge il Mediterraneo, scorre il fiume Naro e ci sono due bacini artificiali: la diga Furore e la diga San Giovanni, quest’ultima con una capacità di 16 milioni di metri cubi d’acqua ma che ne contiene poco più di 11 milioni. Per capire cosa sta accadendo, l’Assemblea ha convocato per martedì prossimo una seduta straordinaria chiamando il governatore Musumeci a riferire sulla situazione idrica nell’isola. «È inaccettabile che Palermo, come altre città della Sicilia, siano costrette a rivivere i disagi dei razionamenti e dei turni di erogazione, Musumeci non si limiti a dichiarazioni e annunci e non tenti di scaricare la responsabilità su altri dal momento che, oltretutto, continua a tenere per sé la delega all’Energia e non ha ancora indicato il nuovo assessore», attacca Giuseppe Lupo, capogruppo del Pd all’Ars.

LA QUESTIONE HA RADICI lontane, frutto di inadempienze, scelte scellerate, speculazioni e grossi affari. Due anni fa, la diga Rosamarina di Caccamo (Pa), con una capacità di oltre 100 milioni di metri cubi, è stata progressivamente svuotata: 40 milioni di metri cubi d’acqua sono stati gettati a mare in linea con una prescrizione del ministero dell’Ambiente che ha chiesto alla Regione di identificare «i punti di percolamento anomali» e poi concordare il percorso da intraprendere. Si tratta di 40 miliardi di litri d’acqua sprecati, pari a 210 giorni di consumi domestici dei residenti metropolitani: forniture continue per 1 milione e 266 mila persone. L’invaso era stato svuotato anche nel 2012 per evitare le esondazioni del fiume San Leonardo, nel 2013 e nel 2015. In mare è stata gettata anche parte degli oltre 30 milioni di metri cubi d’acqua accumulata nelle dighe Comunelli, tra Butera e Gela (Cl), e Disueri sempre a Gela. Ma perché questo scempio? Lo spiegò ben 16 anni fa Totò Cuffaro, da poco eletto governatore nell’isola. Davanti alla commissione sull’approvvigionamento idrico di Palazzo Madama, Cuffaro riferì che nel 60 per cento degli invasi non era mai stato realizzato il collaudo tecnico per le prove di carico. Inoltre, la capacità viene ulteriormente ridotta per l’accumulo sui fondali dei detriti trasportati dalle acque piovane attraverso i canali di scolo, con una riduzione del 25 per cento della capienza. Ecco perché il servizio nazionale dighe non autorizza l’utilizzo massimo degli invasi. Tranne a Messina, in ogni provincia ci sono dighe e relativi bacini artificiali. Molte, come l’Ancipa a Troina (En) e il lago Arancio a Sambuca (Ag), sono anche centrali idroelettriche. Solo il 51% del volume complessivo delle acque, pari a 578 milioni di metri cubi, però è gestito direttamente dalla Regione, che tra l’altro non ha le autorizzazioni per oltre 100 milioni di mc; le altre, da società private che le hanno avute in concessione. Nelle dighe gestite direttamente la Regione quindi può raccogliere un massimo di 417 milioni di mc: dunque è costretta ad aprire le paratie e disperdere l’acqua, nel caso in cui l’acqua in una certa diga superi il volume autorizzato. Per farle rendere al massimo servirebbero ingenti investimenti, il trend però è opposto. Se otto anni fa la Regione spendeva 9,5 milioni di euro per 17 dighe, due anni fa la spesa è stata di appena 3,1 milioni ma per 24 dighe da gestire: un calo del 78% di fondi pubblici in sette anni.

IN QUESTO SFACELO, a Palermo alzano gli occhi in cielo. «Servirebbero 10 giorni di precipitazioni, con una media di 2,5 millimetri al giorno», ripete Maria Prestigiacomo, dirigente Amap. Incrociano le dita anche all’Osservatorio delle acque della Regione, secondo cui per concludere l’anno senza intaccare le riserve servirebbero 500 millimetri di precipitazioni fino ad aprile in tutta la Sicilia, con altri 300 millimetri da settembre a dicembre. Al momento, il livello di acqua negli invasi è del 50 per cento in meno rispetto allo stesso periodo all’anno. Chiosa Nicola Cristaldi, sindaco di Mazara del Vallo (Tp): «Ci manca che venga evocata la danza dei pellerossa per fare scendere acqua dal cielo».