I tre miliardi stanziati per gli enti locali dal decreto Rilancio sono un pannicello caldo. Evitano, forse, che le tante criticità, giunte a un punto di rottura per l’emergenza coronavirus, possano esplodere.

Il governo ha promesso altre risorse nei prossimi mesi, ma questi trasferimenti erariali, sia pure consistenti, non risolvono un problema che ha carattere strutturale, non congiunturale. Il punto è che le casse comunali sono perennemente vuote e a risentirne sono i servizi essenziali: la scuola, i trasporti, la raccolta dei rifiuti, l’igiene e la sanità sul territorio, l’assistenza domiciliare agli anziani, la carenza di asili nido e il welfare locale nel suo insieme.

Eppure nelle città si concentra una grande ricchezza che sfugge quasi del tutto al fisco e non diventa strumento di benessere collettivo. Mi riferisco alla rendita, una stretta alleanza tra mattone e finanza e che diventa ricchezza per pochi. I meccanismi della rendita, mal governati, hanno provocato, negli ultimi decenni, nuove disuguaglianze oltre che una pressione non sostenibile sull’ambiente, sul territorio e sulle risorse naturali. Ci sono stati momenti in cui (a inizio secolo), in molte città, l’hanno fatta da padroni i cosiddetti “furbetti del quartierino” ovvero rentiers e speculatori. Non ci sono i fenomeni estremi di allora, ma resta indisturbato il dominio della rendita sulle città.

La crescita dei prezzi del suolo e la realizzazione di strade, servizi, infrastrutture, verde pubblico: rendita crescente e reddito calante. È urgente invertire la rotta ponendo con forza un grande problema redistributivo. Ma questo obiettivo richiede una riforma della fiscalità locale che consegni ai Comuni un reale potere impositivo, nel quadro della non più rinviabile riforma complessiva del sistema fiscale.

I Comuni dovrebbero essere messi in condizione, attraverso la leva fiscale, di misurare e catturare parte delle plusvalenze fondiarie e immobiliari derivanti dai processi di rinnovo urbano e dalle conseguenti transazioni immobiliari. Purtroppo, l’Invim (imposta sull’incremento dei valori immobiliari), istituita nel 1972, quando l’incremento dei valori era quasi piatto, è stata abolita nel 1992, quando l’incremento dei valori cominciava a impennarsi. E’ stato l’ennesimo regalo alla rendita.

Sarebbe ora il momento giusto per ripristinarla, attualizzandola e rimodulandola sul moderno mercato immobiliare. Per portare alla luce e svelare la reale dimensione della rendita urbana, impedendole di continuare a nascondersi ed essere motore di sprechi e di nuove ingiustizie. La tassazione dell’incremento dei valori immobiliari, per essere efficace, dovrebbe avvalersi del decentramento del Catasto, i Comuni avrebbero un’arma decisiva e potente per accertare la ricchezza presente sul territorio e per trarne benefici sul piano delle entrate e di una reale autonomia nelle scelte amministrative.

La lotta all’elusione e all’evasione fiscale, che in campo immobiliare si attesta intorno al 50 per cento. Gli immobili presenti in Catasto sono il 16 per cento in più di quelli indicati dai contribuenti, decine di migliaia sono gli immobili “fantasma”, migliaia quelli rurali poi ville, senza essere riaccatastati, sfuggendo così al fisco. Il decentramento della gestione del Catasto dovrebbe coerentemente comportare l’attribuzione ai Comuni anche dei tributi di riferimento (imposte catastali, ipotecarie, di registro) che ammontano a più di 7 miliardi l’anno.

La leva fiscale rappresenta la chiave per dare certezza ai bilanci comunali e favorire politiche coerenti con uno sviluppo urbano in grado di coniugare solidarietà, sicurezza e qualità dei servizi. I Comuni potrebbero così risolvere l’anomalia per cui, allo stato attuale, rispetto alla dimensione degli affari immobiliari sul proprio territorio, non vi è alcuna ricaduta in termini di entrate locali.

Naturalmente va corretta la totale abolizione dell’Imu sulla prima casa perché si estende ad una platea vasta di proprietari che potrebbero permettersi il pagamento dell’imposta.