«Mai ci fu tanto affetto doloroso/mai il lontano aggredì tanto vicino/ mai e poi mai il fuoco/meglio un ruolo giocò di freddo morto!», si legge in «I nove mostri» di César Vallejo, poesia del 1939 sulla sofferenza del corpo come riflesso e conseguenza dell’ingiustizia sociale, e non è certo un caso che Diamela Eltit ne abbia tratto il titolo per l’ottavo dei suoi undici romanzi, ora pubblicato da gran vía nell’eccellente traduzione di Raul Schenardi, Mai e poi mai il fuoco (pp. 160, € 16,00). I versi di Vallejo, infatti, sono profondamente affini a quella «poetica del dolore» di cui Eltit ha posto le basi negli anni Settanta con le sue performance per il Colectivo Acciones de Arte, poi abbandonate a favore di una pratica letteraria altrettanto intensa e potente, che mira all’esplorazione della violenza esercitata prima dalla dittatura militare e poi dal mercato sui soggetti subalterni, espropriati dell’identità e del linguaggio.

Nel romanzo, apparso per la prima volta in Cile nel 2007, sono ben riconoscibili sia l’influenza della neoavanguardia e di uno sperimentalismo cui l’autrice non ha mai rinunciato, sia la coerenza che, pur con registri, tematiche e strategie testuali differenti, connota una scrittura fondata su un’esigente ricerca estetica e su un progetto politico via via più radicale. Come in una pièce di Beckett (uno tra gli autori favoriti di Eltit) ci viene presentata una coppia chiusa in una stanza dove l’esistenza si svolge secondo piccoli e intangibili rituali, un guscio miserabile dove si annidano il disfacimento dell’ideologia, dei corpi, degli affetti, mentre lo spazio della città, teatro di violenze nuove e nuovi allarmi, è percepito come una minaccia dagli abitanti della casa-tana, ormai divenuti un tutt’uno con essa.

Nonostante la dittatura sia finita da tempo, i due personaggi senza nome (un ex-leader della sinistra e una militante agguerrita, insieme sin da quando erano giovanissimi) continuano a vivere in una sorta di spartana clandestinità, schiacciati dalla disillusione ed estranei al nuovo secolo e alla società neoliberale coltivata in vitro dal regime di Pinochet e rigogliosamente cresciuta dopo la sua fine. L’ingrato compito di avventurarsi all’esterno tocca a lei, responsabile della sopravvivenza, mentre lui non si alza quasi più da un letto che non è luogo del desiderio o del riposo, ma un nascondiglio dove gli antichi amanti si disputano ogni centimetro, tra i fantasmi dei compagni morti sdraiati sul pavimento, appoggiati alle pareti, seduti sul bordo del materasso, pronti ad annuire o disapprovare, oppure a esibire le stimmate della tortura.

La stanza finisce così per rassomigliare a una Comala ben più tragica e inquietante di quella del Pedro Páramo di Juan Rulfo, e proprio queste presenze spettrali, insieme alle visioni paranoidi che inducono la protagonista a narrare di un assassinio (il suo) avvenuto in anni lontani per mano del compagno, alimentano l’ambiguità fitta di simboli e allegorie che Eltit abitualmente coltiva, insinuando dubbi sulla natura e la consistenza della realtà: forse i personaggi sono soltanto ombre, forse lo spazio che occupano è una tomba segreta, una delle tante occultate dalla dittatura?

Tra i due è la donna a rifiutare di arrendersi del tutto, mai stanca di analizzare le cause della sconfitta e di rivivere il modo in cui ha preso forma: legge e cita con ferrea fedeltà Il Capitale (metatesto onnipresente) per trovare appoggio ai propri argomenti, ricostruisce volti e voci dei militanti scomparsi, continua a evocare il figlio, probabilmente concepito durante uno stupro in carcere e morto bambino perché portarlo in ospedale avrebbe significato infrangere la clandestinità e mettere in pericolo la cellula, l’ultima tra le tante fondate, organizzate e disciolte. La sua memoria non fruga nelle atrocità della dittatura, ma nelle strategie politiche che fra tutti hanno contribuito a elaborare e nelle loro conseguenze, sommando contraddizioni, vuoti, digressioni deliranti che l’autrice utilizza per mettere in discussione tanto il discorso del romanzo realista sulla post-dittatura quanto l’epica che circonda l’utopia rivoluzionaria, la cui estinzione filtra dalle lacune di una perenne incertezza temporale.

La voce narrante non sa dire se certi eventi sono accaduti dieci, cento o mille anni prima, perché l’accumularsi delle catastrofi ha in qualche modo cancellato il tempo, mescolando un passato pieno di falle e zone buie a un presente nebuloso, scandito dalle necessità del corpo e dall’avvicinarsi della morte.
Priva di una trama vera e propria, la narrazione accosta ricordi, squarci onirici e frammenti di quotidianità: un torrente di parole e immagini, un monologo spezzato da rari tentativi di dialogo e affidato a una voce che affonda nel caos.

Anche se l’uomo, chiuso in un’afasia piena di rancore, dalla sordida trincea del letto la invita al silenzio e rifiuta ogni tentativo di condivisione, la protagonista non intende tacere e ricorre al desueto vocabolario della militanza, scomparso insieme a coloro che l’hanno usato per lunghissimi dibattiti su un futuro mai raggiunto e per strenue rese dei conti interne. E la tormentata rievocazione di lei non manca di sottolineare come e fino a che punto il corpo e l’identità delle donne siano stati sottoposti alla normatività maschile, interiorizzata anche da una sinistra in lotta contro la dittatura: dinamiche subìte e insieme accettate con disciplinata ma non inconsapevole complicità.

Come sempre nella narrativa di Eltit, anche in Mai e poi mai il fuoco si rivela centrale il tema del corpo, che campeggia in ogni pagina: i mille dolori fisici elencati nel lungo cahier de doléances dei protagonisti, il parto in clandestinità, la malattia e la morte del figlio, sacrificato all’esistenza di un gruppo destinato a disgregarsi di lì a poco, fino agli sfioramenti involontari sul sudicio materasso di gommapiuma, all’avido ingozzarsi di lui, alla mano paralizzata dai crampi, ai piedi che strisciano sul selciato. Tutto il romanzo, poi, è attraversato da allusioni e riferimenti alla «cellula», intesa come frazione del movimento clandestino e come unità minima della vita, che richiamano la dialettica tra corpo biologico e corpo politico, entrambi modellati dal contesto sociale ed economico, nonché inesauribile campo di battaglia per il potere.

Pura, terrificante corporeità sono inoltre gli anziani ridotti a carcasse impotenti che lei, per guadagnare qualche soldo, lava e ripulisce ogni settimana, vezzeggiandoli come bambini. Gli arti anchilosati, le piaghe, gli odori, gli sguardi appannati descritti con minuzia (una vera e propria parentesi iperralista nel flusso allucinato del monologo), fanno da contrappunto al disgregarsi della cellula e alla fine dell’illusione. Sotto la carne in disfacimento, però, restano le ossa, altro elemento ricorrente neIl’opera di Eltit, simboli di un corpo dissidente che riemerge con ostinazione, bucando la memoria e affermando la possibilità di resistere.