Viviamo nell’epoca del tentacolo, scrive Dagmar Van Engen, nel saggio incluso in Divenire invertebrato (a cura di M. Filippi ed E. Monacelli, 2020) parlando degli ebook erotici che oggi riprendono il filone già esplorato, per esempio, negli shunga giapponesi del periodo Edo, di cui la xilografia di Hokusai Il sogno della moglie del pescatore (1814) è un noto esempio. L’epoca che Donna Haraway chiama Chthulucene, caratterizzata da quella turbolenza viscosa e densa di cui gli esseri tentacolati, di terra e di mare, incarnano «le precarietà seducenti, attraenti, bellissime, limitate e pericolose».

Frustranti per le tradizionali logiche e ideologie dell’animalità che si materializzano in precise relazioni sociali inter- e intra-specie, gli invertebrati hanno sempre funzionato come figurazioni dell’ambiguo. La tentazione (dal latino tentare, sentire) che esercitano è anche connessa al fatto che mancano di una forma definita e che vedono-pensano nel corpo, come le stelle marine di Karen Barad o le «altre menti» di Godfrey-Smith.

In lingua ebraica, Leviatan significa avvolto, contorto; nella versione greca della Bibbia il mostro marino Tannin, parola che in ebraico esprime il piacere ma anche l’afflizione, lascia il posto alle sirene, la cui etimologia riporta, tra le varie possibilità, al greco seirà (corda, legatura dei sortilegi) ma anche al radicale sanscrito sr (fluido in movimento).

DISORDINE BARBARICO per le ancore della civiltà, archetipo del liscio per tutte le striature, l’una modalità impensabile senza l’altra – e mai nei termini di una dualità –, il mare è popolato di creature che non possiamo vedere senza perdere il privilegio della luce, con tutto quel che ne consegue. La miriade di occhi che brillano in mare imbroglia qualunque prospettiva monoculare che vorrebbe definitivamente direzionare il divenire.

Luce Irigaray (Amante marina di Friedrich Nietzsche, tr. it. 2003) ha dialogato con il superuomo nicciano rinfacciandogli di avere inventato l’abisso marino del femminile come rovescio del suo diritto, facendo dell’alterità una finzione, in sua funzione. Lo stesso umano che mangia l’altro per ridurlo a sé, dispiega vele (e veli) per le sue esplorazioni ed epopee, dopo le quali, sempre, approda su qualche terraferma. Perdersi nell’abisso e poi riemergere è un privilegio di chi possiede una Identità, ogni conquista ha già organizzato il suo repertorio di risorse. Oltre che come spazio del transito e dell’incontro, il mare è sempre stato, e ancora è, uno spazio della separazione e del respingimento, per tutte quelle soggettività prigioniere della loro stessa partenza, come direbbe Foucault.

L’acqua del mare e le sue creature liminari e mostruose sono state ampiamente sessualizzate e razzializzate. Durante la progressiva emersione di un femminile seducente-pericoloso, corrispondente simbolico della «castrazione» socioeconomica del maschio borghese del secondo Ottocento, si consolida l’associazione tra le donne e le piovre. I lavoratori del mare di Victor Hugo (1866) scatena in Francia una moda, con tanto di caricature della pieuvre parisienne, e sostanzia l’immaginario attraente-repulsivo mitteleuropeo con cui la psicoanalisi avrebbe presto banchettato (vagine dentate, vagine pelose e simili). Continuando a sedimentare nell’immaginario popolare del Novecento, dai cartoni animati a James Bond (Octopussy, 1983).

Nella prospettiva transfemminista di Van Engen, l’invertebrato inaugura immaginari in/appropriati al di fuori delle logiche etero-normative dominanti nella pornografia mainstream (molti invertebrati marini, peraltro, sono asessuati o multigenere); anche nelle arti visive, le appendici tentacolari mostrano soggettività non conformi, figlie illegittime del Dr. Frankenstein e compagne che la sua creatura non ebbe mai, come quelle con cui l’artista Mary Katayama compone ed espone il proprio corpo senza organi.

NEL DOCUMENTARIO premio Oscar My Octopus Teacher (2020, regia di Pippa e James Reed) il naturalista sudafricano Craig Foster, in piena crisi coniugale di mezza età, decide di stringere una relazione con un polpo femmina, non solo antropomorfizzata ma fortemente genderizzata.
La teorica transfemminista queer Sophie Lewis è stata oggetto di un violento shitstorm su twitter, un vero e proprio Octopusgate, per aver detto senza mezzi termini come in questo film manchi un incontro radicalmente carnale tra l’umano e la cefalopode (niente a che fare con la pornomeccanica, ovviamente, precisa Lewis), e l’epistemologia dell’osservatore non sia mai davvero messa a rischio.
In questa avventura di evasione – ben diversa dalle utopie acquatiche della fantascienza afrofuturista – si riconferma il sentimentalismo erotofobico del modello familiare borghese, con tanto di nascita finale, e celebrazione «sacrificabile», e anche fastidiosamente voyeuristica, di quello che è il normale processo di decadimento che porta le femmine dei polpi alla morte dopo la deposizione delle uova.

L’ACQUACOLTURA INTENSIVA è ormai una pratica diffusa, con notevoli conseguenze ecologiche legate all’inquinamento, all’impoverimento dell’habitat naturale, al rischio di contaminazione tra specie libere ed esemplari in cattività sfuggiti agli allevamenti, oltre a numerose altre problematiche che coinvolgono sempre qualsiasi animale in cattività.

RECENTEMENTE, si sta provando ad allevare anche i polpi, impresa molto difficile e al momento poco redditizia, dato che depongono le uova una volta sola, poi muoiono. In Spagna, però, alcuni ricercatori sono riusciti a mantenere in vita la femmina il doppio del suo ciclo normale in modo da farla riprodurre più di una volta, oltre a cercare di isolarne le cellule staminali per esperimenti di biomimesi – le mucche in allevamento sono quasi sempre gravide e producono giornalmente una quantità di latte sette-otto volte superiore rispetto a quelle libere, vivendo in media quattro volte meno di queste.

In Messico, dove i fondi per queste attività scarseggiano, la gestione dei laboratori dove si studia la possibilità di allevare l’Octopus maya, un polpo che salta lo stadio paralarvale e si schiude in mini-polpi formati, già «oggetto privilegiato» della pesca intensiva, è stata affidata alle donne locali, deputate alle pulizie, ma anche a rimuovere le uova deposte e macellare le madri. Mentre l’acquacoltura dei polpi serve anche, tra le altre cose, alla robotica e alla produzione di antibiotici (ottenuti dal rivestimento delle mucose), l’etinilestradiolo, il più comune estrogeno di sintesi, usato per esempio nelle pillole anticoncezionali e nelle terapie ormonali sostitutive, inquinando le acque del mare influisce sulla capacità di molti invertebrati di rigenerare i propri tessuti, mettendone a rischio la possibilità di difendersi dai predatori e dalle infezioni.

DI FRONTE a questi esercizi umani di s-piegazione della tentacolarità tutt’altro che semiotici, il femminismo delinea un’alternativa che contrasta con l’interpretazione economicista e funzionalista dell’evoluzione e del progresso. Richiamandosi alla teoria della endosimbiosi di Lynn Margulis, Carla Hustak e Natasha Myers (2012) propongono un approccio involuzionistico, cioè tentacolare, alla relazionalità interspecie, capace di rispettare le ecologie affettive (in senso ampio) fra vite che si coimplicano di continuo. Anche lo Chthulucene harawaiano richiede di mettere da parte la postura tassonomica che caratterizza il nostro sguardo sull’animalità (tutta, umani inclusi) e passare a un piano diverso della conoscenza e dell’incontro, dove fatti e speculazioni si aggrovigliano diventando-con ciò di cui raccontano. È tempo di involversi, di farsi tentare.

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8 – continua