L’immagine dei salafiti che issano il vessillo nero sul tetto dell’università La Manouba di Tunisi mentre una studentessa difende coraggiosamente la bandiera nazionale, è il simbolo dei due volti del paese nel post-rivoluzione.

Siamo nel marzo 2012, quando l’estremismo religioso «sopito» durante la dittatura di Ben Ali prova ad emergere con prepotenza e l’anima laica della Tunisia non ci sta. In questo clima di conflitti, Habib Khazdaghli, preside della facoltà di Lettere al suo primo mandato, diventa allora protagonista della resistenza all’islamismo radicale e della tutela dei principi laici. Opponendosi alla costruzione di una moschea all’interno del campus e vietando alle ragazze di indossare il niqab durante gli esami e le lezioni, viene prima attaccato con la forza da un gruppo di giovani vicini al partito Ennahdha, poi trascinato in tribunale con l’accusa di abuso di potere.

Domenica 29 marzo, Khazdaghli – che nel frattempo è stato assolto ma da due anni vive sotto scorta – ha preso parte alla marcia contro il terrorismo, in testa al corteo dell’Association tunisienne pour la defense des valeurs universitaires, un collettivo internazionale nato per sostenerlo durante il processo.

La presenza di Ennahdha – accusata di doppiezza – alla manifestazione di domenica ha suscitato polemiche e defezioni. Qual è il suo pensiero?

Spetta alla giustizia chiarire se Ennahdha sia complice degli assassinii degli esponenti democratici Belaid e Brahmi, ma le sue responsabilità politiche sono assodate perché dopo la rivoluzione utilizzò le frange estremiste per procacciarsi voti. La strage del Bardo, tuttavia, ha costretto Ennahdha a vedere che né il popolo tunisino né la comunità internazionale sono disposti a tollerare la violenza. Inoltre, il risultato delle elezioni del 2014 ha mutato il rapporto di forza concedendo un leggero vantaggio ai progressisti. Con l’attacco del Bardo si è voluto colpire il nuovo governo, nel tentativo di impedire la transizione democratica.

L’aspetto dominante della manifestazione di domenica è stato però, ancora una volta, la partecipazione – al di là di sigle e partiti – dei tunisini, affluiti nella capitale da ogni parte del paese per dimostrare che noi non abbassiamo le braccia.

Qual è attualmente il clima all’Università?

Apparentemente tutto è rientrato nell’ordine ma restiamo vigili. Se è infatti d’obbligo sottolineare che sul piano operativo ci sono delle differenze fra gli estremisti che si nascondono sulle montagne e quelli che frequentano le aule universitarie, dobbiamo anche riconoscere che a livello ideologico le frontiere non sono chiare. Vedremo in futuro se le attuali prese di posizione di Ennahdha contro il terrorismo sono tattiche o veritiere.

C’è un progetto di legge riguardo il divieto di portare il niqab?

È la società civile a chiederlo, con un appello a firmare una petizione che abolisca l’uso di tale indumento. Se nel contesto accademico il niqab non è conforme alle esigenze pedagogiche, perché ci priva del riconoscimento di un’identità, a maggior ragione rappresenta un pericolo al di fuori. Ricordiamoci che nel 2012, Abou Iyadh – capo e cofondatore del gruppo salafita Ansar al Sharia – ricercato per l’attacco all’Ambasciata americana a Tunisi, riuscì a scappare, con la complicità di Ennahdha allora al governo, proprio perché nascosto sotto a un niqab.

Lei è uno studioso delle comunità minoritarie della Tunisia. La memoria a esse legate – si tratti di patrimonio materiale o immateriale – è dovuta a una sorta di «decolonizzazione culturale», dunque a un’ideologia politica, o è piuttosto la religione, nell’intento di ricondurre tutto a un’identità araba, a causare tale scomparsa?

Negli ultimi sessant’anni è stata la visione del vincitore a imporsi e dissolvere quella ricchezza che il multi-culturalismo aveva apportato al nostro paese. L’esistenza di monumenti quali cattedrali e sinagoghe testimonia che in Tunisia hanno vissuto persone appartenenti a differenti gruppi etnici e religiosi. L’allontanamento di questi gruppi dopo l’indipendenza del 1956 ha causato la perdita della memoria collettiva. Bourguiba – il quale si richiamava a un’unità nazionale – veicolò l’idea secondo la quale solo i tunisini musulmani erano gli artefici della lotta di liberazione. Gli islamisti si sono innestati su questa convinzione. Anche se la memoria delle comunità «straniere» esiste nei paesi d’origine, è in Tunisia che si è sviluppata la loro vita e da vent’anni, all’Università, cerchiamo di farla riaffiorare insegnando che la tunisianité è come un mosaico.

Dietro lo striscione,  Habib Khazdaghli  è il secondo da sinistra
Dietro lo striscione, Habib Khazdaghli è il terzo da sinistra

Se ci ostiniamo a considerare la storia come una linea orizzontale anziché una stratificazione cancelleremo ogni volta una parte. La Tunisia ha un substrato berbero che si è giudeizzato e poi cristianizzato, per divenire in seguito musulmano. Tutte queste religioni sono presenti nella nostra cultura così come i popoli – italiani, francesi, greci, ottomani, maltesi… – che ci hanno attraversato.

In questo senso, l’interesse per le minoranze non è solo memoriale ma anche storico.
Sì e noi dobbiamo opporci alle teorie negazioniste di chi ci accusa di fare l’elogio del colonialismo. La storia coloniale è complessa ma ci ha dato un’amministrazione evoluta e, in fondo, anche un modello di lotta. Uno dei primi sindacalisti della Tunisia è stato l’anarchico italiano Niccolò Converti, il quale si batté per la sanità gratuita. Inoltre, se gli ebrei hanno vissuto per 2500 anni nella nostra terra, possiamo forse considerarli una comunità marginale? L’attuale conflitto israelo-palestinese non deve in alcun modo influenzare il presente in favore di un’amputazione politica della nostra storia. Altrimenti, come sostenuto da Amin Maalouf, finiremmo per giustificare quell’ «identità assassina» che oggi ci funesta. Sono convinto che se la Tunisia è l’unico paese, fra quelli delle primavere arabe, a portare avanti un processo democratico contro il conservatorismo dogmatico dei salafiti è anche grazie a quella corrente di «modernismo» insita nelle nostre radici.

La violenza come ripresa mimetica di un’altra violenza sembra esser oggi il linguaggio tragicamente comune a tutto il Mediterraneo. Come uscirne?
La crisi economica cerca dei capri espiatori e, nel clima di odio fomentato da partiti come la lega Nord in Italia o il Front National in Francia, agli stranieri viene accollato l’intero peso di fallimenti e frustrazioni. Una condivisione delle responsabiltà fra le varie componenti della società rappresenterebbe già una soluzione. Inoltre, se l’Europa ottiene una fetta della sua prosperità investendo nella riva sud del Mediterraneo deve anche accettare che quelle popolazioni vogliano spostarsi. L’emigrazione è un fenomeno universale. I capitalisti costruiscono il profitto attraverso la macchina dell’industria e poiché non sono disposti a cedere nulla, è la manodopera acquisita dai paesi sottosviluppati a pagare. Invece di investire denaro per il controllo delle coste sarebbe più utile concentrare gli sforzi finanziari in crediti e programmi di cooperazione affinché le persone non fuggano la loro miseria. Si pensa al Mediterraneo come a un «un lago di pace» ma non è con la forza e i campi di detenzione provvisoria che mantiene la stabilità. Servono dialogo, scambi culturali e quello spirito di vita comune che riavvicini le due rive. Diceva Fernand Braudel che la pianura aiuta le persone a spostarsi più agevolmente. Sempre parafrasando Braudel, il Mediterraneo non è forse una «collina liquida»?